Siddharta, contro le dottrine

Siddharta, contro le dottrine

Siddharta, contro le dottrine

Siddharta, contro le dottrine

Hesse, Siddharta, Adelphi, ed. 2001, credit Antiche Curiosità©

 

Mary Blindflowers©

Siddharta, contro le dottrine

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Siddharta di Hermann Hesse è un libro che descrive un percorso iniziatico-spirituale la cui base è lo scetticismo verso ogni dottrina:

 

Molto contiene la dottrina del Buddha cui la rivelazione è stata largita: a molti insegna a vivere rettamente, a evitare il male. Ma una cosa non contiene questa dottrina così limpida, così degna di stima: non contiene il segreto di ciò che il Sublime stesso ha vissuto, egli solo tra centinaia di migliaia. Questo è ciò di cui mi sono accorto mentre ascoltavo la dottrina. Questo è il motivo per cui continuo la mia peregrinazione: non per cercare un’altra e migliore dottrina, poiché lo so che non ve n’è alcuna.

 

Il protagonista è il figlio di un Brahmino, quindi di classe sociale alta come il suo amico fraterno Govinda. L’elemento essenziale della narrazione è costituito da domande. Siddharta non smette mai di porsi degli interrogativi. Seguendo ordinatamente e con devozione la via spirituale e meditativa tracciata dalla tradizione paterna, inizia ad un certo punto a sentirsi scontento e a coltivare dubbi su come raggiungere la vera saggezza:

Davano i sacrifici la felicità? E come stava questa faccenda degli dei? Era realmente Prajapati che aveva creato il mondo? Non era invece l’Atman, l’unico, il solo, il tutto? Che gli dei poi non fossero forme create… soggette al tempo caduche? … Era un atto sensato e sublime sacrificare agli dei? A chi altri si doveva sacrificare, a chi altri si doveva rendere onore, se non a lui, all’Atman, l’unico, il solo, il tutto? E dove si doveva trovare l’Atman, dove abitava, dove batteva il suo eterno cuore, dove altro mai se non nel più profondo del proprio io, in quel che di indistruttibile ognuno porta in sé? Ma dov’era questo Io, questa interiorità, questo assoluto? Non era carne e ossa, non era pensiero né coscienza: così insegnavano i più saggi. Dove, dove dunque era?… Questa via nessuno la insegnava, nessuno la conosceva, non il padre, non i maestri e i saggi, non i pii canti dei sacrifici…

 

Da tutti questi dubbi nasce la storia. Siddharta abbandona la casa paterna per cercare la sua personale via di realizzazione e scoperta del sé. Morirà ritualmente diverse volte prima di capire ciò che già sapeva, ossia che nessun maestro può insegnare alcunché se l’uomo non vive da solo la sua esperienza mistico-terrena. Così Siddharta conosce il digiuno, la sofferenza, la mortificazione del corpo e il suo contrario. Conosce la voluttà tra le braccia della bella Kamala, la cortigiana, e per amor suo diventa ricco. Afferra la ricchezza che poi ad un certo punto afferra lui e se ne disgusta. Ha tante vite in una sola, morendo ogni volta nel passaggio da uno stato ad un altro della sua iniziazione esoterica.
Un po’ come il nostrano Pinocchio collodiano, Siddharta è una favola rituale, un viaggio nel sé in cui lo stesso Venerabile Buddha non è il protagonista ma il contorno di una dottrina che non può valere per tutti. Infatti Siddharta non lo segue e non se ne pente.
Hesse usa uno stile molto semplice, scorrevole, ponendo domande importanti. Il difetto del libro è una certa ridondanza di contenuti e concetti. La diffidenza verso ogni dottrina viene reiterata continuamente, in modo quasi ossessivo anche nei pochi dialoghi oltre che nella prosa. Che bisogno c’è di ripeterlo nell’incontro con il barcaiolo quando il lettore già è ampiamente informato? Che bisogno c’è verso il finale, quando Siddharta incontra nuovamente l’amico Govinda, di raccontargli tutto ciò che il protagonista ha fatto nel tempo in cui non si sono visti, quando il lettore sa già tutto? A che serve questa superflua ridondanza se non ad allungare il brodo?
Decisamente troppe ripetizioni. L’iterazione in un testo di narrativa non sempre è un difetto. In alcuni casi serve per veicolare messaggi simbolici. Una coazione a ripetere di situazioni tipo può servire a inquadrare i personaggi, ma in questo caso la ridondanza è disfunzionale, è inutile perché niente aggiunge alla caratterizzazione del protagonista, diventa pleonasmo.
Ci troviamo comunque in presenza di un testo apprezzabile già per il solo fatto che il personaggio si interroga e percorre la via con tutto il carico della sua umanità e dei suoi errori, mettendo in discussione l’autorità dei saggi e anteponendo loro una saggezza che viene dal basso, tant’è che un semplice barcaiolo, Vasudeva, si rivela più saggio dei saggi perché maestro senza pretendere di esserlo. Un messaggio di umiltà destinato a non estinguersi col tempo.

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