Giacomo Leopardi aveva ragione

Giacomo Leopardi aveva ragione

Giacomo Leopardi aveva ragione

Giacomo Leopardi aveva ragione

Ruote di ferro, credit Mary Blindflowers©

 

Mary Blindflowers©

Giacomo Leopardi aveva ragione

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Immaginate per un secondo che Leopardi e Marinetti possano risuscitare per una partita a scacchi durante la quale avrebbero la possibilità di parlare delle macchine. Chi vincerebbe col senno di poi?

Inizio dunque queste poche semplici righe con la pretesa un poco balzana di voler dimostrare qualche cosa, un po’ come fanno gli accademici che premettono ai loro lavori grandi promesse di dimostrazioni e poi finiscono spesso con il non dimostrare alcunché ma coll’ipotizzare soltanto.

Si vuole qui dimostrare, dunque, la vittoria indiscussa e la superiorità filosofica e umana di Leopardi sul frutto della propaganda macchinizzata macinamilioni marinettiana.

I Sillografi, nell’antica Grecia, erano autori di versi da burla.
In Proposta di Premi fatti dall’Accademia dei Sillografi, Leopardi ha intenti chiaramente ironici sull’uso delle macchine che allora cominciavano a prendere piede:

 

… del fortunato secolo in cui siamo, come dice un poeta illustre, ha tolto a considerare diligentemente le qualità e l’indole del nostro tempo; e dopo lungo e maturo esame si è risoluta di poterlo chiamare l’età delle macchine, non solo perché gli uomini d’oggidì procedono e vivono forse più meccanicamente di tutti i passati, ma eziandio per rispetto al grandissimo numero delle macchine inventate di fresco ed accomodate, o che si vanno tutto giorno trovando ed accomodando a tanti e così vari esercizi, che oramai non gli uomini ma le macchine, si può dire, trattano le cose umane e fanno le opere della vita (Leopardi, Proposta di Premi fatta all’Accademia dei Sillografi, Laterza, 1928, p. 28).

 

L’ironia leopardiana poi man mano si rafforza, volgendosi in una critica efficace della società del suo tempo:

 

…per virtù di esse macchine siamo già liberi e sicuri dalle offese dei fulmini e delle grandini e da molti simili mali e spaventi, così di mano in mano si abbiano a ritrovare, per modo di esempio (e facciasi grazia alla novità dei nomi), qualche parainvidia, qualche paracalunnie o paraperfidia o parafrodi, qualche filo di salute o altro ingegno che ci scampi dall’egoismo, dal predominio della mediocrità, dalla prospera fortuna degl’insensati, de’ ribaldi e de’ vili, dall’universale noncuranza e dalla miseria de’ saggi, de’ costumati e de’ magnanimi e dagli altri siffatti incomodi, i quali da parecchi secoli in qua sono meno possibili a distornare che già non furono gli effetti dei fulmini e delle grandini… (Leopardi, p. 29).

 

Stante tutto questo, l’Accademia dei Sillografi auspica che gli uomini vengano sostituiti dalle macchine, in particolare da tre macchine: la prima capace di sincera amicizia, la seconda di opere virtuose e magnanime, la terza dovrebbe fare “gli uffici di una donna conforme a quella immaginata”.

Con questa Operetta che, per gli spiriti ignoranti, è poco riuscita, per quelli avanti, una delle migliori, Leopardi critica sia la disumanizzazione tecnologica dell’uomo sia “il predominio della mediocrità”, ossia carriere costruite su invidie e frodi (forse per questo a molti non sembra una ciambella ben fatta!)

 

I Futuristi, al contrario, esaltano irragionevolmente il mito della velocità e della macchina connessa all’urbanizzazione indiscriminata, come in questa poesia di Marinetti, 1905:

 

All’automobile da corsa

Veemente dio d’una razza d’acciaio,
Automobile ebbrrra di spazio,
che scalpiti e frrremi d’angoscia
rodendo il morso con striduli denti…
Formidabile mostro giapponese,
dagli occhi di fucina,
nutrito di fiamma
e d’olî minerali,
avido d’orizzonti e di prede siderali…
io scateno il tuo cuore che tonfa diabolicamente,
scateno i tuoi giganteschi pneumatici,
per la danza che tu sai danzare
via per le bianche strade di tutto il mondo!…

 

o nello stesso delirante Manifesto:

 

Noi canteremo le grandi folle agitate dal lavoro, dal piacere o dalla sommossa: canteremo le maree multicolori o polifoniche delle rivoluzioni nelle capitali moderne; canteremo il vibrante fervore notturno degli arsenali e dei cantieri incendiati da violente lune elettriche; le stazioni ingorde divoratrici di serpenti che fumano; le officine appese alle nuvole pei contorti fili dei loro fumi; i ponti simili a ginnasti giganti che scavalcano i fiumi, balenanti al sole con un luccichio di coltelli; i piroscafi avventurosi che fiutano l’orizzonte, le locomotive dall’ampio petto, che scalpitano sulle rotaie, come enormi cavalli d’acciaio imbrigliati di tubi, e il volo scivolante degli aeroplani, la cui elica garrisce al vento come una bandiera e sembra applaudire come una folla entusiasta.

 

Leopardi sosteneva che le grandi città sono motivo di profonda infelicità alienante, come sostiene esplicitamente nell’Operetta Detti memorabili di Filippo Ottonieri:

 

Ora nelle grandi città tu sei lontano dal bello, perché il bello non ha più luogo nessuno nella vita degli uomini. Sei lontano anche dal vero: perché nelle grandi città ogni cosa par finta o vana. Di modo che ivi, per dir così, tu non vedi, non odi, non tocchi, non respiri altro che falsità, e questa brutta e spiacevole. Il che agli spiriti delicati si può dire che sia la maggior miseria del mondo (Leopardi, Detti Memorabili di Filippo Ottonieri, Laterza 1928, p. 138).

 

Il tempo ha dato letterariamente ragione a Leopardi, anticipatore della crisi modernista che sfocerà in un importantissimo filone letterario, da Kafka a Joyce, dai poeti della Harlem Renaissance a Svevo, etc. sul disagio dell’uomo contemporaneo nell’ambiente urbano, percepito come estraneo e artificiale.

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Comment (1)

  1. Mariano Grossi

    Ce ne fossero di bardi
    come Giacomo Leopardi,
    uomo troppo intelligente,
    preveggente e grande mente,
    mentre il futurista mente:
    è a confronto gran demente!

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