La testa del serpente

La testa del serpente

La testa del serpente

La testa del serpente

La testa del serpente, credit Mary Blindflowers©

 

Angelo Giubileo©

La testa del serpente

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L’essere e il tempo del più grande filosofo del Novecento, Martin Heidegger, non sono in fondo che le “categorie” prioritarie asservite, nella logica ambivalente del linguaggio umano, alle proprie narrazioni o metanarrazioni. La differenza linguistica tra le une e le altre, narrazioni e metanarrazioni, attiene alla “dimora” – che diciamo immanente o trascendente – dell’essere da cui il tempo, circolare o lineare, inizia e ha o dovrebbe avere fine. Così che l’essere è da sempre confuso – nel linguaggio del “discorso” (λόγος) o del “verbo” secondo la traduzione latina del verso di Giovanni – con ciò che diciamo sia la “realtà” e, da qualche tempo, anche la “virtualità”; mentre il tempo – almeno a far data dalla “scoperta” che Giorgio de Santillana dice abbia fatto, in qualche modo s’intende, per primo Parmenide (G. de Santillana e H. von Dechend, Il mulino di Amleto) – è legato (sempre dal greco λέγειν, che significa “raccogliere”, “contare” o anche “trascegliere” e in greco classico “raccontare”, “parlare”) allo spazio lineare (emblematicamente, lo spazio matematico e infinito/eterno – di cui Giovanni Semerano in L’infinito: un equivoco millennario coglie la contraddizione e soprattutto la diversità di espressione e di significato dei due termini – che, nel paradosso di Zenone, separa inevitabilmente Achille e la tartaruga) o circolare dell’“eterno ritorno”. E, rispetto a l’inizio che è l’inizio che è dell’origine o principio al quale far risalire la nostra specie culturale e quindi cultuale – attraverso le attuali risultanze dell’analisi e della ricerca – la cultura dell’Uomo-Serpente (cfr. Archeo n. 445 marzo 2022) o in generale la cultura ofidica, che in qualche modo – attualmente – sembra precedere ogni altra.
L’immagine dell’Uomo-Serpente è nitidamente scolpita in un santuario di Karahan Tepe, nella Turchia sud-orientale, e risale a circa il 9000 e.a., un’epoca coeva o prossima all’ultima glaciazione (10000-8000 e.a.). Il sito è parte di una vasta area circostante che occupa un’amplissima superficie ancora da scavare che ingloba altri sette siti ricompresi tra il confine turco nord-ovest di Kilisik e Harbetsuvan, nel sud-est, al confine con la Siria. Senza aggiungere altro, diciamo che ogni cultura ofidica è caratterizzata emblematicamente dalla figura del serpente o drago, di terra cielo o mare, a cui, altrettanto emblematicamente, nelle culture successive di assoluto contrasto e opposizione, un uomo dio o semidio è raffigurato nell’atto di tagliare a lui la testa.
Felice Vinci scrive da anni che la cultura classica greca sia nata nel Baltico (F. Vinci, Omero nel Baltico). Così come Franco Rendich, sempre da anni, scrive che il patrimonio dell’intera cultura indoeuropea derivi da “un folto gruppo di uomini e donne, proveniente da una regione prossima al Polo Nord, che un giorno di circa 10000 anni fa giunse in un villaggio situato nel circolo polare artico. Quei profughi, a causa del ripetersi di inverni sempre più rigidi, andavano cercando verso Sud un clima mite e una dimora sicura” (F. Rendich, L’origine delle lingue indoeuropee). Una “dimora sicura” ovvero uno spazio-tempo da abitare.
Sareste allora sorpresi se vi dicessi che, in base alle ricerche e analisi di Rendich, il latino sum, esse (essere) derivi dal sanscrito as avente il significato di “avvio (a) di legami (s)”? E che la realtà – reale o originaria che sia o virtuale che sia diventata – non indica altro che la condizione di un possesso, nient’altro che uno “status” di appartenenza genericamente inteso? Così che, in qualche modo, potremmo concludere: un luogo (in greco τόπος), fisico o metafisico o virtuale, e una dimora, immanente o trascendente o virtuale, da abitare.
Per chi non intende credere al trascendente, non restano che due soluzioni abitative: reale o virtuale. A quest’ultima fanno ora riferimento i Transumanisti, ideologi di un “eterno” senza fine in uno spazio-tempo immanente, proiettati verso un futuro e quindi un tempo lineare che non ammette alcun “ritorno”. Nell’attesa del presente, a tutti i Transumanisti vorrei narrare un antico mito che, dicono Giorgio de Santillana e Hertha von Dechend nella succitata e monumentale loro opera, “ci giunge dai Catlo’ltq della Columbia Britannica (e che) potremmo definirlo un’enciclopedia tascabile del mito”. Non lo riporto parola per parola, rimandandovi alla lettura integrale del testo nell’opera, ne propongo soltanto un brevissimo estratto:

Un uomo aveva una figlia che possedeva un arco e una freccia meravigliosi, con cui poteva abbattere tutto quello che voleva. Ma era pigra e se ne stava sempre a dormire. Per questo motivo, suo padre si adirò e le disse: ‘Non startene sempre a dormire; prendi invece il tuo arco e la tua freccia e colpisci l’ombelico dell’oceano, così che noi si ottenga il fuoco’”. La figlia lo accontentò. E allora, “il vecchio fu contento. Accese un gran fuoco e, poiché voleva tenerselo per sé, costruì una casa con una porta che si apriva e si chiudeva a scatto come una mascella uccidendo tutti quelli che volevano entrare. Ma la gente sapeva che egli possedeva il fuoco, e Cervo decise di rubarlo per loro …”. Così fu, e da allora l’“eterno”, lasciata quell’unica dimora stanziale dell’inizio, intraprese una via.
“Ma – dicono ancora i Nostri – prima che le antiche luci si spengano, riprendiamo per un ultimo istante la dichiarazione esplicita sulla precessione che ci è conservata nell’Epopea di Erra. Marduk dice a Erra: Quando mi alzai dal mio seggio e lasciai irrompere il diluvio, allora si scardinò il giudizio della Terra e del Cielo … Gli dei che tremavano, gli astri del cielo – mutò la loro posizione e io non li ricondussi indietro.

E dunque: una via … ma che avrebbe fatto sempre ritorno all’inizio. Una via immanente e giammai trascendente. Una via che, attraverso i millenni, diviene una via dell’esilio e cioè la via di ogni essere umano che, alla maniera dei tanto decantati viaggi degli dei, iniziato il proprio viaggio a casa desidera far pur sempre ritorno. Salvo che, per così dire, non sia colto da una maledizione o una sorta di damnatio memoriae che lo costringa a peregrinare per sempre in cerca della propria dimora.
Ed è così che, per giustificare questo triste uopo, occorreva una nuova narrazione che divenisse una nuova metanarrazione e che pertanto estendesse lo spazio abitativo a un tempo che inizia e finisce. Un “ritorno” senz’altro, ma – diversamente dalla concezione Antica – non a una dimora immanente, bensì a una dimora trascendente: da un vecchio paradiso terrestre a un nuovo paradiso celeste, dove ognuno dimori per l’eternità. Ciò che costituisce la metanarrazione dell’apocatastasi paolina, così cara a Origene, immediatamente dopo l’apocalisse giovannea, e il taglio definitivo della testa del Serpente.
Nel 1992, subito dopo il crollo dell’impero sovietico, Francis Fukuyama anticipava nel suo La fine della storia e l’ultimo uomo la narrazione della gloria dell’Homo-Deus allora nascente, trasfigurato non solo dai transumanisti ma anche da altri, come Yuval Noah Harari. A distanza di trent’anni, e non solo quindi altrove e nel corso di questi stessi anni, il Dio-degli-eserciti è ritornato anche in Europa e a fronteggiarlo ha ritrovato, come sempre, le spire più antiche del Dragone.
Plutarco – che testimonia e condivide lo Scetticismo eterno degli Antichi e per primo di Parmenide (come dire che gli ultimi saranno i primi e la ruota del mulino continua a girare) – scrive infine: “Neanche coloro che trattarono lungamente dell’epoche, scrissero trattati e discorsi per confutarla riuscirono poi a scuoterla. Ma alla fine costoro la vietarono, adducendo dalla Stoa l’accusa secondo la quale essa avrebbe portato come la testa della Gorgona all’inattività. Nonostante essi la assalirono e la misero completamente sottosopra, l’impulso si rifiutava di diventare assenso e non ammetteva la sensazione come asse della bilancia, ma si manifestava di per se stesso come guida delle azioni, non avendo bisogno di nulla che fosse aggiunto dal di fuori. I dibattiti contro costoro sono, infatti, condotti in modo conforme alle usanze, e ‘quale il parlare che facesti, tale il responso che avrai’” (adversus Colotem, 1122B).

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