Credete voi che i libri…?

Credete voi che i libri...?

Credete voi che i libri…?

Credete voi che i libri...?

Leopardi, operette morali, Laterza, 1928, credit Antiche Curiosità©

 

Mary Blindflowers©

Credete voi che i libri…?

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È in corso da alcuni anni un puerile quanto sterile tentativo accademico di demistificazione del genio leopardiano. I motivi di tale atteggiamento così antiletterario e lontano da ogni ragionevolezza, nonché da prove che non suscitino il riso, è rinvenibile sia nelle lettere che nei vari scritti dello stesso poeta recanatese. Questi detestava al massimo grado il perbenismo salottiero e certi movimenti che, anche alla sua epoca, portavano dei mediocri sul podio, come avviene ancora oggi.
Ne Le Operette morali, Il dialogo di Timandro e di Eleandro è a tal proposito molto esplicito.
Chi avrà tempo di leggerlo potrà notare alcune questioni essenziali in cui Leopardi ha la possibilità di esercitare tutto il suo sagace spirito critico, per liberare l’arte da compiti didascalico-morali e soprattutto per denunciare la falsità del mondo letterario:

 

Eleandro. Credete voi che i libri possano giovare alla specie umana?

Timandro. Non solo io, ma tutto il mondo lo crede.

Eleandro. Che libri?

Timandro. Di più generi, ma specialmente del morale.

Eleandro. Questo non è creduto da tutto il mondo; perché io, fra gli altri, non lo credo…

 

Eleandro ha le idee molto chiare, i libri migliori non sono quelli che insegnano a vivere, bensì quelli che muovono l’immaginazione.

Poi arriva una domanda importantissima in cui Timandro, chiede al suo interlocutore perché eserciti il suo spirito critico nella scrittura:

 

Timandro: Ma in fine, se non vi muovono ingiurie ricevute, non odio, non ambizione; che cosa vi muove a usare cotesto modo di scrivere?

 

Eleandro rivendica la propria libertà intellettuale e sembra fare un’analisi perfetta dell’omologazione:

 

Diverse cose. Prima, l’intolleranza di ogni simulazione e dissimulazione… Che si usino maschere e travestimenti, per ingannare gli altri, o per non essere conosciuti, non mi pare strano: ma che tutti vadano mascherati con una stessa forma di maschere, e travestiti a uno stesso modo, senza ingannare l’un l’altro, mi pare una fanciullaggine. Cavinsi le maschere, si rimangano coi loro vestiti; non faranno minori effetti di prima e saranno più a loro agio. Perché pur finalmente, questo finger sempre, ancorché inutile, e questo sempre rappresentare una persona diversissima dalla propria, non si può fare senza impaccio e fastidio grande.

 

Leopardi, come Eleandro, rivendicava la propria dignità di genio non allineato alle mode, la capacità di scrivere senza maschere e senza la pretesa di insegnare la morale al lettore, con una conclusione di pessimismo attivo, atta ad esaltare il riso come antidoto alla disperazione: “Dicono i poeti che la disperazione ha sempre nella bocca un sorriso”.

E non è vero che Leopardi attribuisca alla potenza del riso compiti morali, semplicemente sostiene che il riso è la forza disincantata con cui si può guardare il mondo criticamente invece di lagnarsene. E non credete a quei commentatori domenicali che sostengono che Leopardi eticizzi la verità attraverso il riso che è invece soltanto la finestra per guardare il mondo con occhi critici.
E non credete nemmeno a quella rana esaltata di Palazzeschi che ne Il Controdolore, 29 Dicembre 1913, scriveva:

 

Un gobbo, natura ve lo indica perché gli ridiate dietro, e proprio dietro nella schiena essa gli pose il tesoro della sua giocondità. Un poeta gobbo che continuasse per tutta la vita a cantare dolorosamente non potrebbe essere mai e poi mai un uomo profondo, ma il più superficiale di questa terra. Egli si sarebbe fermato a piagnucolare alla superficie della sua gobba come un fanciullo alla parola «bao» dopo averci rubato lo scrigno del suo tesoro dorsale per non essere stato capace di penetrarlo.

 

Cosa c’è del resto di più superficiale e balordo di uno che giudica un poeta dal suo aspetto fisico?
Siamo al trionfo della banalità pettegola che ha attecchito bene nei salotti i cui asini ancora replicano la storiella banale del gobbo infelice che si consolava mangiando gelati, senza dire che se potesse Leopardi li sputerebbe dall’alto del suo intramontabile caustico genio.

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