Due cose, stupore, meraviglia

Due cose, stupore, meraviglia

Due cose, stupore, meraviglia

Due cose, stupore, meraviglia

L’uomo perbene, drawing from sketchbook by Mary Blindflowers©

 

Mary Blindflowers©

Due cose, stupore, meraviglia

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Due cose riempiono la gente di stupore e meraviglia sempre crescenti, ma non si tratta della legge morale o del cielo stellato sopra di noi, come asseriva il filosofo di Königsberg, quelle son cose d’altri tempi mai esistiti, piuttosto si parla di potere e sfortuna, quella degli altri, s’intende.
Se successo, soldi e potere generano nell’uomo medio una sorta di impasto misto tra invidia, desiderio di emulazione e ammirata dedizione a personaggi costruiti a tavolino dal gossip, anche lo sbandieramento ai quattro venti di una presunta sfortuna di questi stessi soggetti eternamente sotto i riflettori, attira i consensi del pollo medio, una pietà mediatica degna del più scadente romanzetto rosa.
Ogni aspetto della vita del cosiddetto vip crea un trip negli ingenui, specie se viene messo spudoratamente in piazza e mentre un tempo erano i paparazzi a inseguire i personaggi noti, appostandosi e sorprendendoli in momenti privati, almeno così volevano farci credere, adesso sono i personaggi che si spaparazzano da soli nei social, sfruttando ogni minimo avvenimento sia in positivo che in negativo per attirare l’attenzione.
Anche la malattia così salta da una dimensione privata e personale ad una sfera pubblica in cui la si espone in pose plastiche e con tanto di cerone in faccia, per ottenere la solidarietà delle genti e che genti poi, persone che al massimo si leggono le riviste di gossip perché avere a che fare con dei contenuti potrebbe far venire loro l’orticaria.
L’idiota medio ama il potere ma anche le disgrazie purché siano rigorosamente altrui ed è sempre pronto a sfoderare ammirazione per il primo e a spremere qualche lacrimuccia sintetica per le seconde.
La macchina del marketing così macina tutto, umanizzando apparentemente un dio di carta e preservandolo, grazie alla sua improvvisa sfortuna o malattia, dalle grinfie del dimenticatoio.
Nel mondo dell’esposizione mediatica incontrollata, se la malattia vera o presunta, può essere sfruttata per colpire lo stato emozionale delle masse, anche il dono diventa marketing.
Commessi che applaudono sotto le telecamere mentre viene donato un oggetto di lusso e non essenziale ad un profugo ucraino in un negozio che vende tecnologia, sono un’ottima pubblicità per il negozio, ottenuta ad un costo minimo. Una sorta di do ut des ad uso masse.
Del resto lo stesso Marcel Mauss (Épinal, 10 maggio 1872 – Parigi, 10 febbraio 1950) nel suo Saggio sul dono, precisa che anche nelle società primitive il dono non è affatto una pratica disinteressata, come siamo portati comunemente a credere, ma un vero e proprio obbligo sociale che reca con sé innumerevoli vantaggi atti a creare nuovi convenienti legami.
Il dono è una forma di baratto perché il donatore si aspetta sempre un ricambio. I popoli primitivi lo sanno. Lo sappiamo anche noi, che in fondo, siamo rimasti piuttosto primitivi nella sostanza.
Soltanto che mentre i gruppi etnici studiati da Mauss erano sinceri tra loro, ossia non fingevano di donare disinteressatamente, tutta la comunità sapeva che donare non era un atto fine a se stesso ma un preciso comportamento sociale che recava in sé il concetto di utilità, oggi la pubblicità fa credere alle masse che ci sia del disinteresse nel dono. Ovvio che se un negozio mette il suo brand sotto i riflettori e sente l’urgente esigenza di pubblicizzare il suo regalino, ha uno scopo preciso, ossia sta giocando con spudorato e finto buonismo la carta emotiva, premendo sul presunto buon cuore di un popolo che non sa fare due più due e quindi crede veramente che il dono ostentato con applausi di commessi obbligati a recitare una scena madre attorno al bimbo innocente che riceve, sia privo di qualunque secondo fine che invece sta sotto gli occhi di tutti.  Si grida infatti alla bontà del punto vendita che dona non cibo, ma un costoso giochino elettronico, sicuramente utilissimo ed essenziale ma non per chi lo ha ricevuto bensì per chi lo ha regalato che avrà un ritorno pubblicitario a costo minimo.
Nel piccolo, nei social, sciami di arrivisti che sembrano girini con le code in movimento, emulano questa forma di marketing emotivo. Mostrano a tutti le loro malattie, i loro gesti di bontà mielosa, e si commuovono sinteticamente come dei robot per i morbi morbosi di personaggi vuoti che ostentano a loro volta ad hoc ogni loro starnuto.
Questo è un mondo brandizzato in cui il vero perbenista si commuove a comando per il mal di pancia del cagnolino del contatto fb, per la sorte del profugo che il governo dice sia quello giusto, mentre altri esseri umani, quelli di serie b, frutto di guerre dimenticate ad hoc, possono tranquillamente morire di freddo nell’indifferenza generale. Così il perbenista medio, con la foto del Papa e dell’arcobaleno nel profilo, augura la morte a chiunque la pensi in modo diversamente utile e invoca le armi per risolvere i conflitti. Il suo motto è, darei la vita, la tua, affinché tu la smetta di non pensarla come me.

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