Polpettologia desanctisiana, ideale, critici

Polpettologia desanctisiana, ideale, critici

Polpettologia desanctisiana, ideale, critici

De Sanctis, polpettologia, critica

De Sanctis, Manzoni, 1955, credit Antiche Curiosità©

 

Mary Blindflowers©

La polpettologia di Francesco De Sanctis

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Einaudi nel 1955 pubblica un volume intitolato Manzoni, di Francesco de Sanctis, a cura di Davide Muscetta e Dario Puccini, un volumone altrimenti volgarmente definibile “mattone” di 425 pagine, che poteva essere risolto in meno di 200 se soltanto sia il prefattore che l’autore stesso, avessero avuto il dono divino e raro della sintesi.
Si parla di lezioni desanctisiane della seconda scuola napoletana, 1872, (escluse le lezioni giovanili), che sono state accorpate per formare un unico libro il cui prolisso girare su se stesso si avverte fin da subito nelle circonluzioni dense di parole ridondanti che girano interminatamente su se stesse, in quell’eloquio ottocentesco artatamente stantio in cui si dice senza dire nulla, con un affastellamento stucchevolmente romantico di parole che sembrano insufflate da ventosità intestinali. Si esprimono nel complesso idee piuttosto banali che potevano essere tranquillamente rese con un periodare molto più semplice e diretto.

Sui Promesssi Sposi, per esempio, ecco la polpettologia desanctisiana:

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Ciascun personaggio ha un suo proprio modo di guardare il mondo. Una sua propria posizione morale e intellettiva formata dal temperamento, dal carattere, dall’educazione, da un complesso di circostanze naturali, psicologiche e storiche, che costituisce la sua personalità, cioè a dire il suo ideale. Sicché il vero interprete non è nella posizione che occupa ciascun personaggio dirimpetto al mondo religioso e morale preesistente nell’immaginazione del poeta, ma nella ricca originalità della sua esistenza individuale. Il lettore può ignorare che relazione tenga don Abbondio o don Rodrigo con quel mondo ideale, senza che scemi il suo interesse per queste creature immortali, anzi tanto gusterà più realtà così vivaci, così finemente analizzate, quanto meno si ricorderà di quelle relazioni astratte… E perché il poeta, gittando nello stesso fornello mondo ideale e mondo storico, sottoponendo tutto allo stesso processo di analisi ha tutto unificato, dato a tutti gli stessi colori e le stesse forme, l’impressione generale che ti viene dal racconto è una, ed è quale ti viene dalla vita, scrutata ne’ suoi più occulti strati di formazione e poi colta sul fatto, variata e mobile, nel suo libero gioco, nelle sue apparenze anche più accidentali e capricciose. L’autore suole, quando ha a mano un personaggio, un oggetto, un avvenimento, studiare la sua successiva formazione, le fonti della sua individualità, la sua natura, la sua educazione, le sue forze e i suoi mezzi, il suo carattere, la sua fisionomia, il suo ambiente, e quando te lo ha bene spiegato, sicché tu l’abbi innanzi nel suo ideale, in ciò che gli è proprio e caratteristico, ecco, te lo mette in situazione, nell’atto della vita, e comincia la rappresentazione.

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Che le suindicate ovvietà vengano scritte da un critico fa la differenza nella considerazione della storia e dei critici che si appoggiano su altri critici che citano e glorificano altri critici all’infinito. La congerie di lezioni desanctisiane raccolte risulta inefficace, manca di precisione, di profondità, veleggia costantemente sull’opinione e l’esaltazione, ma soprattutto non dice niente che un comune lettore non possa trarre dalla lettura del testo originale criticato.
La prefazione di Muscetta è a sua volta, disordinata, vaga, speudo-dottamente salta di palo in frasca, segue l’impasto polpettonesco del testo, parla senza dire nulla, cita, ripete parti del libro qua e là. Se riuscite a leggerla senza soccombere o entrare in stato comatoso, vi immergerete nelle delizie soporifere del professor De Sanctis.
Nel paragrafo intitolato Dal Classicismo al Romanticismo, l’autore precisa che lo studio “è un dialogo”, che l’imparare a memoria è decadenza. Per la verità concetto più che legittimo e moderno, ma espresso con un tono carico di greve paternalismo e autocompiacimento, usando se stesso come esempio e quindi sottintendendo che chi parla è un uomo di genio o di pensiero:

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Ma che vale lo studio mio al quale voi siete estranei, ignorando come, per quali vie io sia giunto al risultato, quali ricerche siano state necessarie, quali meditazioni vi si possano fare? Il giovane che sente e ignora la via per cui si è giunti al risultato, è passivo, inerte; come avviene in tutte le epoche stazionarie e paludose in cui un popolo non studia per cercare, ma per imparare. Quell’imparare a mente è decadenza: cercare, investigare per quali vie l’uomo di pensiero e di genio abbia camminato ecco il progresso qui è l’acqua corrente.

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Le parole si rincorrono tra loro nelle definizioni ripetitive e poco dense in cui l’autore si improvvisa teologo e confonde l’ideale di stampo vetero-romantico e cattolico addirittura con l’anima:

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Qual era l’deale romantico?
Noi ci facciamo un’idea strana dell’ideale, crediamo che sia un concetto, un’idea circoscritta; immaginiamo che potendo concepire l’ideale possiamo diventare ideali, avere una letteratura ideale. Italiani e francesi sentendo dire l’ideale! L’ideale! Pensarono di avere una letteratura ideale. Ma l’ideale non è l’idea, è un insieme, un tutto: sentimento, intelligenza fusi insieme, ciò che diciamo anima in date disposizioni…

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Gli ideali sono tramontati quasi tutti ormai nella società contemporanea e anche certi critici della letteratura italiana, vecchie trombe incartapecorite e oramai illeggibili, lodate come grandi figure del pensiero, riverite e citate senza che nessuno abbia più il coraggio di leggerle veramente, andrebbero notevolmente ridimensionate e riviste con uno spirito leggermente più critico e meno adulatore verso l’eterno e mai estinto strapotere degli accademici

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