L’improbabile poesia di Milo de Angelis

L'improbabile poesia di Milo de Angelis

L’improbabile poesia di Milo de Angelis

Di Lucio Pistis & Sandro Asebès©

 

L'improbabile poesia di Milo de Angelis

Primavera, credit Mary Blindflowers©

 

Per caso rovistando tra gli scaffali nella libreria per le pulizie di primavera, la moglie di Lucio ci ha segnalato un vecchio testo che avevamo dimenticato. E siccome la moglie di Lucio è un tipo pratico, è scattata la domanda: “Che ne faccio? Lo butto o lo lascio?

Il libro si intitola “Distante un padre”, anno 1989 di Milo de Angelis, catalogazione ufficiale “poeta”, lo dice pure Wikipedia, e se lo dice Wiki possiamo allora stare tranquilli.

Il buon Milo avrebbe portato romanticismo, fiaba e innovazione nella poesia contro lo sperimentalismo neoavanguardista. Secondo la wiki-bio in questo testo “confluiscono tutti gli elementi consolidati dell’universo poetico di De Angelis in un dettato visionario che si pone sotto il segno del delirio e dell’oscurità semantica. Si tratta di uno dei libri più corposi e ricchi di suggestioni di De Angelis, sicuramente il più disarticolato e controverso, divenuto oggetto, al suo apparire, di pareri contrastanti da parte della critica. Il libro contiene anche una sezione finale scritta nel dialetto di Casale Monferrato, luogo di origine della madre del poeta”.

Lo abbiamo dunque riletto. Ma l’impressione che ne abbiamo ricavato è che forse chi scrive le biografie sull’Enciclopedia libera, si droga. Più che disarticolato il volume è incomprensibile.

Leggiamo una sua poesia:

Le costanti del tempo

.

Scrivo sul cartone, sulla

foto di gruppo, sulla gabbia dei colpi

che i malati talvolta hanno. Come spose

camminano con l’acqua, sanno che

la vita ha chiesto un solo miracolo osceno. E penso

al tenero catechismo del salesiano, quando

morì balbettando in un dialetto. Giancarlo

era con me. Disegnava

strani animali, aerei sui tetti. Pregava. Non

per risorgere o per un altro azzurro. Voleva

un’arte più serena di noi. Pregava così, la buona avventura,

lo stesso colore, qui, dell’insonnia.

Una prosa rimediata accorpando immagini che di innovativo hanno ben poco, messe insieme alla rinfusa e che hanno la straordinaria capacità di non significare nulla. Un vuoto contenutistico nascosto sotto un finto prosaico ermetismo senza ritmo, senza capo né coda. Non c’è un solo verso in questa poesia, semplicemente si va a capo, così, senza un criterio preciso, creando anche un effetto antiestetico dal punto di vista stilistico con la separazione del verbo dal complemento oggetto: “voleva/un’arte”; “disegnava/strani animali”, oppure del soggetto dal verbo: “Giancarlo/era”, non si capisce bene a che scopo, se non quello di definire malamente la pura prosa che va a capo a casaccio, tanto per fare, per occupare l’idea forse insopportabile di uno spazio vuoto nella pagina. Idem con: “sulla/foto”. Il risultato è un polpettone depauperato di senso che davvero si fa tanta fatica a definire poesia.

Per il terzo modo di vivere

Difficile rispondere subito – ero lì –

a un pianoforte che concentra il bene

con distinzioni violente. L’estate viene vinta

di poco. Troncando questi piedi a fiori, chiudendo

i soldi nel mappamondo, un rosario

gelava nell’acqua, pura acqua spezzata …

… nostra minima christiana … le giocanti

disegnano l’ira, bosco dell’uomo, le altre

lo abbattono con colpi di mosche cieche

in un magistrale fescennino elettrico.

Allora la notte non viene

dal cielo, ma dalle case e dai muri.

Ancora prosa e solo prosa, un’accozzaglia di immagini come affastellate a caso che forse nella testa di chi scrive, avevano l’intenzione di creare un effetto fiabesco. Il risultato è simile ad un ricercato elenco del telefono in cui anziché elencare numeri, si elencano immagini, spesso associate in modo improprio per puro amor di scena. Che cos’è un fescennino elettrico? Diremmo parafrasando L’epistola di Orazio (“Fescennina per hunc inventa licentia morem versibus alternis opporbria rustica fudit”, Epistulae II, 1,145-146; “La licenza fescennina sorta attraverso quest’usanza improvvisò grossolane ingiurie con versi alterni”) che le pseudo poesie da oracolo cumano scritte da De Angelis generano a versi alterni (o forse uno dietro l’altro) grossolane ingiurie da parte del lettore. Pensiamo che per lo meno ci vorrebbe un po’ di umiltà montaliana; tentare di spiegare al lettore che cosa s’intende per fescennino elettrico, come il sommo fece sul giornale dopo aver chiuso la magnifica “La speranza di pure rivederti m’abbandonava” con quel sibillino: (“a Modena, tra i portici, un servo gallonato trascinava due sciacalli al guinzaglio)”. Montale, parlando di questa lirica (in un articolo sul “Corriere della Sera” del 16 febbraio 1950), spiega l’antefatto e le circostanze concrete da cui essa è nata. “Un pomeriggio d’estate Mirco [pseudonimo sotto il quale si nasconde Montale] si trovava a Modena e passeggiava sotto i portici. Angosciato com’era e sempre assorto nel suo «pensiero dominante», stupiva che la vita gli presentasse come dipinte o riflesse su uno schermo tante distrazioni. Era un giorno troppo gaio per un uomo non gaio. Ed ecco apparire a Mirco un vecchio in divisa gallonata che trascinava con una catenella due riluttanti cuccioli color sciampagna, due cagnuoli che a una prima occhiata non parevano né lupetti né bassotti né volpini. Mirco si avvicinò al vecchio e gli chiese: «Che cani sono questi?». E il vecchio, secco e orgoglioso: «Non sono cani, sono siacalli». (Così pronunciò da buon settentrionale incolto; e scantonò poi con la sua pariglia.) Clizia amava gli animali buffi. Come si sarebbe divertita a vederli! pensò Mirco. E da quel giorno non lesse il nome di Modena senza associare quella città all’idea di Clizia e dei due sciacalli. Strana, persistente idea. Che le due bestiole fossero inviate da lei, quasi per emanazione? Che fossero un emblema, una citazione occulta, un senhal? O forse erano solo un’allucinazione, i segni premonitori della sua decadenza, della sua fine? […] Una sera Mirco si trovò alcuni versi in testa, prese una matita e un biglietto del tranvai (l’unica carta che avesse nel taschino) e scrisse queste righe: La speranza di pure rivederti / m’abbandonava; / e mi chiesi se questo che mi chiude / ogni senso di te, schermo d’immagini, / ha i segni della morte o dal passato / è in esso, ma distorto e fatto labile, / un tuo barbaglio. S’arrestò, cancellò il punto fermo e lo sostituì con due punti perché sentiva che occorreva un esempio che fosse anche una conclusione. E terminò così: (a Modena, fra i portici, / un servo gallonato trascinava / due sciacalli al guinzaglio)”.

Evidentemente De Angelis è troppo sicuro della cristallinità diafana dei suoi versi e considera noi lettori o troppo disattenti o troppo deficienti per capire l’altissimo trismegistismo delle sue linee (come chiamarle versi? Non osiamo).

Ma non si fratta dell’unico passaggio a nostro modestissimo parere incomprensibile: che cosa sono dei piedi a fiori? Vorremmo saperlo. Come si chiudono dei soldi in un mappamondo? Ci interesserebbe trovare il sistema alternativo al salvadanaio! In che maniera i grani di un rosario si congelano in acqua? L’effetto crioterapico sulle coroncine da portare in chiesa non ci lascerebbe indifferenti; servirebbe da rinfrescante nelle giornate afose delle nostre latitudini!

Ma sia ben chiaro, il nostro approccio ha verisimili contorni della limitatezza; se il maestro De Angelis pubblica con case editrici di livello significa molto probabilmente che è dotato di una chiave d’accesso inaccessibile (si perdoni la tautologia) a noi comuni mortali! È troppo avanti…perché noi lo si possa capire ed esegetizzare! Ci limiteremo a suggerire ai lettori: parla De Angelis: prendete un decrittatore di codice! Intanto noi poveri mortali, ignari delle dinamiche occulte dei grandi gruppi editoriali, diciamo alla moglie di Lucio di buttare il libro del sommo poeta nella spazzatura. Aria, aria, è primavera!

https://antichecuriosita.co.uk/manifesto-destrutturalista-contro-comune-buonsenso/

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