Sciascia, inguaribilmente ottimista

Sciascia, inguaribilmente ottimista

Sciascia, inguaribilmente ottimista

Di Pierfranco Bruni©

Sciascia, inguaribilmente ottimista

L’ottimismo, credit Mary Blindflowers©

 

La realtà gioca costantemente sul filo del sospetto. I fatti, la cronaca, gli ambienti, i paesaggi stessi in Sciascia sono sospesi nel di dentro di una attesa che coinvolge quotidianità e mistero. Nella vita c’è sempre il mistero, ma anche nella storia. Alcuni fatti che Sciascia storicizza vivono nel mistero-enigma perché non si sa mai la verità o perché la verità è sempre un’altra cosa diversa da quella che si possa pensare. E Sciascia racconta non solo il suo tempo. I personaggi che si muovono nelle pagine diventano protagonisti, ma anche testimoni. Testimoni di se stessi, ma anche testimoni che raccolgono le testimonianze di un’epoca.

Sciascia nasce a Recalmuto nel 1921. Nei suoi lavori la Sicilia è sempre presente. In questo caso non vi compare una Sicilia dalle immagini romantiche o una Sicilia romanzata. La Sicilia è sì un emblema che rincorre il sentimento, ma è anche soprattutto la coscienza dello scrittore. Ecco, dunque, la coscienza pensante. La Sicilia come meridionalità e mediterraneità, ma anche la Sicilia come appartenenza ad una terra, a un valore, ad una ereditarietà. Ma, ancora di più, la Sicilia come destino.

Prevale su questo tracciato il documento certamente, ma è un documento freddo, lontano dal cuore dello scrittore, o un documento bloccato sulla cronaca. Ci sono i personaggi e i personaggi rivitalizzano la cronaca stessa rendendola partecipata e partecipativa. Il racconto si muove all’interno della cronaca.

Nel 1950 pubblica “Favole della dittatura”. Un libro incerto privo di slancio e fragile. Così la sua raccolta di poesie di due anni dopo dal titolo “Sicilia, il suo cuore”. Certo. La Sicilia è al centro di queste prime avventure letterarie, ma la stessa proiezione letteraria è completamente fragile. Nel 1956 pubblica “Le parrocchie di Regalpetra”. Un libro nel quale l’inchiesta si apre a ventaglio su una scrittura viva e intensa. Con questo libro Sciascia sottolinea già la sua avventura di scrittore e fa una ipoteca su ciò che scriverà in futuro.

Nel 1958 escono i racconti dal titolo “Gli zii di Sicilia”. In questi racconti si respira un’atmosfera da cronaca. È uno spaccato storico ben preciso. Garibaldi, la Spagna, il Fascismo, il 1943 e la morte di Stalin. Attraverso questi passaggi Sciascia disegna un quadro nel quale le tinte e i chiaroscuri sembrano avere una impostazione ideologica ma, alla fine, ci si accorge che ciò che resta è soltanto una angoscia di fondo. d’altronde è così in quasi tutti i suoi libri. In Sciascia c’è una ironia-allegoria, ma c’è soprattutto la realtà che si raccoglie ora intorno al personaggio, ora intorno al racconto stesso. Accanto all’ironia si affianca la denuncia. In una intervista apparsa sul supplemento di “La Repubblica” del ’28 ottobre 1989 alla domanda: “Ad attrarla maggiormente è la soluzione dell’enigma o il mantenimento del mistero”? Sciascia rispondeva: “Il mantenimento del mistero: che non ha mai soluzione anche quando sembra trovarla. Il “giallo” presuppone l’esistenza di Dio. E l’esistenza di Dio… ma fermiamoci qui”. Il titolo dell’intervista: “Il mistero, questo nostro pane quotidiano”. È firmata da Benedetta Craveri.

Ecco. I suoi libri si muovono proprio intorno a questo mistero. un mistero che non chiede di essere ascoltato dalla ragione perché resta sempre avvolto nella dimensione del sospetto e dell’attesa. I fatti si raccontano, vengono raccontati, possono restare tali ma subentra quasi sempre un’altra entità: l’impossibilità di afferrare il sogno. Si pensi a “Candido”. Si pensi a “Il cavaliere e la morte”. Ma proseguiamo con ordine. Il 1961 pubblica “Il giorno della civetta”. È un racconto che lo fa conoscere al grande pubblico. È una storia di mafia. C’è un delitto iniziale che richiama altre simili situazioni di sangue e di omertà. C’è naturalmente l’inchiesta. È affidata a un capitano del nord. Si creano diversi e complicati intrecci ma alla fine non si approda a nulla. La mafia supera ogni sbarramento. C’è, come sempre, di mezzo la politica. Ma l’atmosfera che si crea è certamente una atmosfera di attesa. È anche un racconto attraversato dal sentimento. “Il Consiglio d’Egitto” è del 1963. Si tratta di un romanzo storico il cui ambiente riflette la Palermo del vicereame di Caracciolo. Il pessimismo di Sciascia affiora con intelligenza e sobrietà. I fatti hanno una loro drammatizzazione e si consumano all’interno di un incrocio che vede protagonista la pietà. Sullo stesso tracciato si incontrano libri come “L’onorevole” del 1964, “Morte dell’inquisitore”, “Recitazione della controversia liparitana dedicata ad A.D.” del 1970. In quest’ultimo scritto (si tratta di un dramma) c’è una metafora graffiante. C’è la rievocazione di un episodio avvenuto tra Stato e Chiesa nel 1700. Ma la metafora o l’allegoria ci riporta alla Praga devastata e occupata dai carri armati sovietici durante la primavera del 1968. È una allusione interessante con la quale Sciascia mette continuamente in discussione il marxismo condannandolo e mostrando (questo dramma è un esempio ma non unico) il vero volto del comunismo.

Verso un altro versante vanno i libri “A ciascuno il suo” del 1966, “Il contesto” del 1971, “I pugnalatori” del 1976. Il giallo di Sciascia è un giallo intraprendente. È un giallo che riserva fino all’ultimo sempre nuove sorprese e nuovi sconvolgimenti. Cattura per la tensione che si crea nelle pagine e poi per la sintesi. Tutto sommato Sciascia è uno scrittore che non annoia proprio perché i suoi libri sono sempre una sintesi completa. Una sintesi alla quale nulla sfugge.

Tra gli scrittori che hanno interessato Sciascia sono certamente da ricordare e sottolineare Stendhal e Pirandello. L’interesse verso Pirandello è duplice. Da una parte la sicilianità e dall’altra l’ironia che si lega al personaggio e quindi allo sdoppiamento del personaggio, alla recita e alla vita. Sciascia pubblica un omaggio a Pirandello “Pirandello e la Sicilia” del 1961. La figura di Pirandello è presente soprattutto in alcuni contesti narrativi e dove il personaggio si muove tra la finzione e la realtà. Ma l’inchiesta continua e con gli “Atti relativi alla morte di Raymond Roussel” del 1971, “Todo modo” del 1974, “La scomparsa di Majorana” del 1975. Si passa dal suicidio al delitto e da questo alla scomparsa non chiarita del giovane scienziato. Insomma c’è un tracciato su cui si muovono numerose pedine. Ed è sempre l’inchiesta o l’indagine a fare da sfondo e attraverso l’inchiesta si ricavano le chiavi di lettura. Nel 1977 pubblica “Candido”. Un libro che ha spessore sia letterario che umano. C’è lo sfaldamento di alcuni valori e il senso della solitudine che trionfa al di là della questione ideologica che è quasi sempre presente. Ma in “Candido” c’è anche una pagina ricca di sentimento. Nel 1978 esce “L’affaire Moro”. La tragica vicenda che si consuma dal 16 marzo al 9 maggio del 1978, è rivissuta da Sciascia attraverso le lettere di Moro e attraverso la ricostruzione di alcune pieghe degli avvenimenti. Nel 1979 esce “Nero su nero”, nel 1983 “Cruciverba”, nel 1985 “Occhio di capra” nel 1985 “Cronachette”, nel 1986 “La strega e il capitano”, nel 1986 “1912 + 1”, nel 1987 “Porte aperte”, nel 1988 “Il cavaliere e la morte”, nel 1989 “Alfabeto pirandelliano”. Sempre nel 1989 vedono la luce “Una storia semplice”, “Fatti diversi di storia letteraria e civile” e “A futura memoria”.

L’ultimo decennio è stato intenso. Dal giallo al racconto ironico, dal racconto al saggio. Proprio nel 1989 pubblica due raccolte di saggi che contengono scritti letterari e considerazioni varie.

Dall’ultimo decennio emerge una diversità di vedute sui problemi della vita e sul paese. Su due sponde si è orientato il suo cammino: il mistero e la ragione. Come il mistero e la ragione possano convivere in Sciascia ha tentato di spiegarcelo. Ma c’è tutto un discorso aperto sul quale impostare una discussione. Il pessimismo di Sciascia in fondo è ottimismo. O meglio, e qui c’è una patina religiosa, è la speranza. Nell’intervista citata dichiara: “E quale miglior prova di ottimismo di quella che continuo a dare scrivendo su quella che Machiavelli chiamava la verità effettuale delle cose e riscuotendo per questo le più violente reazioni degli stupidi – per non dir peggio? Il vero pessimismo sarebbe quello di non scrivere più, di lasciar libero corso alla menzogna. Se non lo faccio, vuol dire, in definitiva, che sono inguaribilmente ottimista”.

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