Il metodo simbolico-matematico del reverendo Dodgson

Il metodo simbolico-matematico del reverendo Dodgson

Il metodo simbolico-matematico del reverendo Dodgson

Di Mary Blindflowers©

 

Alice, credit Mary Blindflowers©

 

Era venerdì 4 luglio dell’anno 1862, il reverendo Charles Dodgson con un suo collega, portarono delle bambine a fare una gita in barca sul Tamigi. Le bambine pretesero ed ottennero una favola. Il reverendo Dodgson, che secondo alcuni aveva una sospetta sopita predilezione sessuale per le bambine, improvvisò, e la favola piacque così tanto che esse pretesero ed ottennero che il reverendo la mettesse per iscritto. Così nacque, secondo i bene informati, la favola di Alice nel paese delle meraviglie che Dodgson pubblicò con lo pseudonimo di Lewis Carroll. Alice più che una bambina sembra l’alter ego infantile e un po’ antipatico di Dodgson, con una certa rigidità concettuale, per esempio l’incapacità di accettare di essere contraddetta. Un libro gustoso soprattutto per la tipicità dei soggetti. La trama, nonostante evidenti difetti formali, nonostante passi spesso da una situazione all’altra senza un sufficiente filo di continuità logica, e salti di palo in frasca come se niente fosse, mantiene tuttavia un suo fascino a causa dei personaggi tipici che rimangono impressi nella memoria. Sebbene non vengano descritti fisicamente, gli agenti della storia hanno una precisa caratterizzazione, data dal contesto, da alcune definizioni lampo ma soprattutto dal loro comportamento bizzarro e allusivo.

Un mondo onirico-simbolico infarcito di non-sense che sono ben lontani dall’apparente mancanza di senso che emanano. Tradiscono infatti un disegno matematico-filosofico che riprende alcune domande cruciali già poste da filosofi e matematici, attraverso neologismi cerniera e conversazioni che sembrano assurde. In pratica l’autore mescola la prima parte di una parola con la seconda parte di un’altra e ottiene delle parole nuove: lumaca e squalo diventano “lumalo”. Tra paradossi e assurdità volutamente contorte, si dipana la storia che, sebbene manchi di pathos in molti punti, tuttavia ha sfumature di genio.

È il trionfo del non-sense dentro cui ricercare un senso che non è poi così ingenuo come potrebbe sembrare. I personaggi di Carroll avevano anche una base reale, un mondo di esperienza catapultato poi nell’onirico.

Per esempio, il cappellaio matto è uno dei personaggi che più rimangono impressi nella fantasia del lettore. Carroll non solo non lo descrive, limitandosi a parlare del suo comportamento curioso, ma non lo chiama The Mad Hatter, lo chiama solo Hatter, cioè cappellaio, dicendoci solo successivamente che era matto. Il Cappellaio di Carroll era infatti convinto che fosse sempre l’ora del the, aveva un orologio da taschino che non segnava l’ora e si divertiva a porre domande assurde a cui era impossibile rispondere: “Che differenza c’è tra un corvo e un tavolino?”… “Da quella parte”, disse il gatto, agitando la zampa destra, “abita un Cappellaio e da quest’altra”, agitando l’altra zampa, “abita una Lepre Marzolina. Va’ pure da chi ti pare, sono matti tutti e due”…1

Nell’Inghilterra vittoriana, i cappellai, ossia i fabbricatori di cappelli, erano esposti a una quantità tale di sostanze chimiche, da avere le pupille verdognole, i capelli arancioni e disturbi di personalità. Forse la figura del cappellaio del Paese delle meraviglie è veramente ispirata dall’espressione allora in uso “matto come un cappellaio”, non è improbabile. I sali di mercurio come il cloruro mercurico (HgCl2), o sublimato corrosivo, usato dai cappellai, erano spesso causa di intossicazioni sul lavoro. L’intossicazione da mercurio infatti, era chiamata per tutto il XVIII e XIX secolo, “morbo del cappellaio matto” “mad-hatter disease”. Oggi è nota come Hydrargirismo. Si verificava soprattutto tra i produttori di cappelli (ecco perché cappellaio), e i conciatori di pelli che soffrivano spesso di tremori, deliri, stati allucinatori e bipolarismo comportamentale.

Tuttavia, qualunque sia l’ipotesi reale, anche in questo caso resta l’immagine del cappellaio come soggetto tra le righe, un’immagine molto comune nell’Inghilterra ottocentesca, dove i discorsi degli addetti alla lavorazione del feltro, intossicati dalla chimica, non dovevano essere meno strambi e sconclusionati di quelli del personaggio di Lewis Carroll.

I cappelli in feltro venivano infatti trattati con una notevole quantità di sostanze altamente tossiche, non solo mercurio, ma anche arsenico, piombo, malachite e antimonio. Un mix micidiale.

Il mercurio usato per la fabbricazione del feltro era considerato un elemento indispensabile, ottenuto tramite un procedimento chiamato “carotatura”. Si immergevano le pelli animali dentro una soluzione di nitrato di mercurio in modo da separare i peli dalla pelle, solo successivamente il feltro veniva spalmato di cere e rivestito di pelle o seta. A volte i cappellai provavano su se stessi i cappelli sagomandoli sulla loro testa prima di rivestirli, per questo motivo, col tempo, i loro capelli diventavano arancione fosforescente. Nel film Alice in Wonderland di Tim Burton infatti ha i capelli arancioni, esattamente come gli operai delle fabbriche di cappelli vittoriane.

I cappellai avevano anche le pupille dilatate per via della polvere di malachite che veniva utilizzata per tingere il feltro. Essi la respiravano, infatti avevano spesso anche problemi respiratori e depressione, le pupille assumevano un curioso quanto inquietante colore verde.

Il brillant green, colore molto apprezzato per i cappelli, era ottenuto con una miscela di piombo e arsenico, utilizzata anche per tingere tappezzerie e tendaggi.

Carroll utilizzava dati reali per comunicare tra le righe un gioco logico-linguistico che attingeva ai metalinguaggi dal sapore vagamente zen che ricordava anche episodi di letteratura classica e dialoghi filosofici alla greca.

https://antichecuriosita.co.uk/manifesto-destrutturalista-contro-comune-buonsenso/

Post a comment