Lirica leopardiana, ciclico interrogarsi

Lirica leopardiana ciclico interrogarsi

Lirica leopardiana, ciclico interrogarsi

 

Classici, credit Antiche Curiosità©

 

Mariano Grossi©

Lirica leopardiana, ciclico interrogarsi

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Che fai tu, luna, in ciel? dimmi, che fai,
Silenziosa luna? Sorgi la sera, e vai,
Contemplando i deserti; indi ti posi.
Ancor non sei tu paga
Di riandare i sempiterni calli?
Ancor non prendi a schivo, ancor sei vaga
Di mirar queste valli?
Somiglia alla tua vita
La vita del pastore.
Sorge in sul primo albore;
Move la greggia oltre pel campo, e vede
Greggi, fontane ed erbe;
Poi stanco si riposa in su la sera:
Altro mai non ispera.
Dimmi, o luna: a che vale
Al pastor la sua vita,
La vostra vita a voi? dimmi: ove tende
Questo vagar mio breve,
Il tuo corso immortale?
Vecchierel bianco, infermo,
Mezzo vestito e scalzo,
Con gravissimo fascio in su le spalle,
Per montagna e per valle,
Per sassi acuti, ed alta rena, e fratte,
Al vento, alla tempesta, e quando avvampa
L’ora, e quando poi gela,
Corre via, corre, anela,
Varca torrenti e stagni,
Cade, risorge, e più e più s’affretta,
Senza posa o ristoro,
Lacero, sanguinoso; infin ch’arriva
Colà dove la via
E dove il tanto affaticar fu volto:
Abisso orrido, immenso,
Ov’ei precipitando, il tutto obblia.
Vergine luna, tale
È la vita mortale.
Nasce l’uomo a fatica,
Ed è rischio di morte il nascimento.
Prova pena e tormento
Per prima cosa; e in sul principio stesso
La madre e il genitore
Il prende a consolar dell’esser nato.
Poi che crescendo viene,
L’uno e l’altro il sostiene,
e via pur sempre
Con atti e con parole
Studiasi fargli core,
E consolarlo dell’umano stato:
Altro ufficio più grato
Non si fa da parenti alla lor prole.
Ma perché dare al sole,
Perché reggere in vita
Chi poi di quella consolar convenga?
Se la vita è sventura
Perché da noi si dura?
Intatta luna, tale
E` lo stato mortale.
Ma tu mortal non sei,
E forse del mio dir poco ti cale.
Pur tu, solinga, eterna peregrina,
Che sì pensosa sei, tu forse intendi,
Questo viver terreno,
Il patir nostro, il sospirar, che sia;
Che sia questo morir, questo supremo
Scolorar del sembiante,
E perir dalla terra, e venir meno
Ad ogni usata, amante compagnia.
E tu certo comprendi
Il perché delle cose, e vedi il frutto
Del mattin, della sera,
Del tacito, infinito andar del tempo.
Tu sai, tu certo, a qual suo dolce amore
Rida la primavera,
A chi giovi l’ardore, e che procacci
Il verno co’ suoi ghiacci.
Mille cose sai tu, mille discopri,
Che son celate al semplice pastore.
Spesso quand’io ti miro
Star così muta in sul deserto piano,
Che, in suo giro lontano, al ciel confina;
Ovver con la mia greggia
Seguirmi viaggiando a mano a mano;
E quando miro in cielo arder le stelle;
Dico fra me pensando:
A che tante facelle?
Che fa l’aria infinita, e quel profondo
Infinito seren? che vuol dir questa
Solitudine immensa? ed io che sono?
Così meco ragiono: e della stanza
Smisurata e superba,
E dell’innumerabile famiglia;
Poi di tanto adoprar, di tanti moti
D’ogni celeste, ogni terrena cosa,
Girando senza posa,
Per tornar sempre là donde son mosse;
Uso alcuno, alcun frutto
Indovinar non so. Ma tu per certo,
Giovinetta immortal, conosci il tutto.
Questo io conosco e sento,
Che degli eterni giri,
Che dell’esser mio frale,
Qualche bene o contento
Avrà fors’altri; a me la vita è male.
O greggia mia che posi, oh te beata,
Che la miseria tua, credo, non sai!
Quanta invidia ti porto!
Non sol perché d’affanno
Quasi libera vai;
Ch’ogni stento, ogni danno,
Ogni estremo timor subito scordi;
Ma più perché giammai tedio non provi.
Quando tu siedi all’ombra, sovra l’erbe,
Tu se’ queta e contenta;
E gran parte dell’anno
Senza noia consumi in quello stato.
Ed io pur seggo sovra l’erbe, all’ombra,
E un fastidio m’ingombra
La mente, ed uno spron quasi mi punge
Sì che, sedendo, più che mai son lunge
Da trovar pace o loco.
E pur nulla non bramo,
E non ho fino a qui cagion di pianto.
Quel che tu goda o quanto,
Non so già dir; ma fortunata sei.
Ed io godo ancor poco,
O greggia mia, né di ciò sol mi lagno.
Se tu parlar sapessi, io chiederei:
Dimmi: perché giacendo
A bell’agio, ozioso,
S’appaga ogni animale;
Me, s’io giaccio in riposo, il tedio assale?
Forse s’avess’io l’ale
Da volar su le nubi,
E noverar le stelle ad una ad una,
O come il tuono errar di giogo in giogo,
Più felice sarei, dolce mia greggia,
Più felice sarei, candida luna.
O forse erra dal vero,
Mirando all’altrui sorte, il mio pensiero:
Forse in qual forma, in quale
Stato che sia, dentro covile o cuna,
È funesto a chi nasce il dì natale.

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Partire con un testo così denso e gravido d’angosce inesauste può sembrare irriverente e oserei dire blasfemo, se l’approdo della considerazione vuole essere la produzione lirica contemporanea di poeti che hanno incentrato attenzioni e riflessioni sulla vita e le meditazioni dirette del mondo contadino e agreste tout court.

Intendo dire che un conto è porre in bocca al semantico membro dell’ambito rustico un semplice microfono come fa il grande recanatese, il cui spirito umiliato e vilipeso da sorte maligna parla dietro la maschera del protagonista, un altro conto è dar voce diretta all’uomo dei campi da parte di chi quelle lande dure e desolate ha vissuto condividendone le reali angustie fisiche e psichiche quotidiane.

Sembra fisiologico in tal senso rilevare nella lirica leopardiana una resa esausta dopo un lungo e ciclico interrogarsi sul perché di una vita misurata dalla fissità dell’immutabile fatica quotidiana: tale capitolazione rende la poesia semplicemente mirabile e irripetibile, poiché parto di meditazioni profondissime, ma che non potrebbero mai esser prodotto reale e diretto del rustico viandante, già in ragione del lessico elevatissimo che Leopardi utilizza. D’altronde la paratia tra il poeta e uomo Leopardi e il circondario in cui nacque e crebbe era manifestamente palpabile nell’appellativo di ”natio borgo selvaggio” esplodente tutta la presa di distanza, diversità e incomunicabilità del giovane e nobile studioso rispetto a quegli artefici dei prodotti del mondo agreste che servivano solo per i pranzi quotidiani allestiti nel palazzo del Conte Monaldo. Agevole stralciare dalle ”Ricordanze” questo passo sintomatico in tal senso:

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Né mi diceva il cor che l’età verde
Sarei dannato a consumare in questo
Natio borgo selvaggio, intra una gente
Zotica, vil; cui nomi strani, e spesso
Argomento di riso e di trastullo,
Son dottrina e saper; che m’odia e fugge,
Per invidia non già, che non mi tiene
Maggior di sé, ma perché tale estima
Ch’io mi tenga in cor mio, sebben di fuori
A persona giammai non ne fo segno.
Qui passo gli anni, abbandonato, occulto,
Senz’amor, senza vita; ed aspro a forza
Tra lo stuol de’ malevoli divengo:
Qui di pietà mi spoglio e di virtudi,
E sprezzator degli uomini mi rendo,
Per la greggia ch’ho appresso

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Pietro Giordani, grande amico di Leopardi nutriva simpatia per Recanati e stimolò più volte il poeta ad amare il sito natale, citando all’uopo Plutarco ed Alfieri; basta leggere la risposta contenuta in una  lettera all’amico per rendersi conto della distanza interiore da quel mondo: «Plutarco, l’Alfieri amavano Cheronea ed Asti. Li amavano e non vi stavano. A questo modo amerò ancor io la mia patria quando ne sarò lontano; ora dico di odiarla perché vi sono dentro, ché finalmente questa povera città non è rea d’altro che di non avermi fatto un bene al mondo, dalla mia famiglia in fuori». E più  avanti, parlando del paese semanticissime le sue parole che ne sottolineano: «la morte, l’insensataggine e la stupidità […] il sonno universale, la mancanza d’ingegno» sognando una fuga e una vita «in un mondo che mi alletti e mi sorrida, un mondo che splenda (sia pure di luce falsa)».

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