Giancarlo Pontiggia e l’assolo del trombone©

Giancarlo Pontiggia e l’assolo del trombone©

Di Lucio Pistis & Sandro Asebès©

Vecchio tipo, credit Mary Blindflowers©

Il trombone è capace di esprimere calmi e posati accenti religiosi ovvero il clamore selvaggio dell’orgia. È uno strumento che non conosce mezze misure e rinforza prevalentemente le voci basse: suono grosso, scuro e grave, è bisognevole di accompagnamento (come il clarinetto arboreo). Immaginato da solo e senza i sostegni sinfonici fondamentali, dà l’idea di repellenza acustica nell’aggressività petulante dei toni infimi.

L’autunno ha i ritmi del trombone, ci porta sempre un poco di tristezza perché ci ricorda il disfacimento delle cose, ci ricorda che anche noi siamo vecchi strumenti un poco in disuso. Così per consolarci, pieni di fiducia nel fiato confortevole e caldo della poesia, ci rechiamo in libreria. Nella sezione poeti contemporanei troviamo, ben in evidenza, dei libri dalle copertine standardizzate, senz’arte. Non si giudica un libro dalla veste editoriale, così ne prendiamo uno, da leggere con calma a casa davanti ad un buon bicchiere di rosso. Il libraio è tassativo, ha apposto un simpatico cartello con su scritto: “questa non è una biblioteca, i signori utenti sono cortesemente pregati di leggere a casa”. Così paghiamo, lo guardiamo in cagnesco e ce ne andiamo.

Giancarlo Pontiggia classe 1952 pubblica con Mondadori, nella famosa collana “Lo Specchio”, pubblica con Guanda, ha collaborato con Feltrinelli, insomma, con editori importanti. È un “poeta”, un “critico letterario”, un traduttore. Redattore della rivista di poesia “Niebo” dalla fine degli anni Settanta fino al 1981, ha vinto nel 1988 anche un importante premio letterario, il premio Eugenio Montale di cui sembra riecheggiare vagamente e scoordinatamente il ritmo, senza riuscire a raggiungere gli stessi risultati. Montale infatti è morto, da tempo. Leggere una “lirica” di Giancarlo Pontiggia a noi fa l’effetto di un purgante o di un assolo di trombone, nell’ampollosità lessicale costantemente e pervicacemente ricercata, caratterizzata dall’oscurità del senso e la vacuità del supporto tecnico e contenutistico. Questa è una docimologia della sensazione che ci comunica e potrebbe benissimo esser a sua volta valutata come inettitudine personale a comprendere l’afflato messaggistico dell’autore. Perciò umilmente siamo qui a chiedere a chi lo edita e recensisce di spiegare ciò che per noi rimane nebuloso sin dal titolo di una sua opera, “Le muraglie del mondo”, che a tutta prima ci fa pensare ai bastioni petrosi ammirati in Cina, ovvero ad un tardo riecheggiare della clausola montaliana in “Meriggiare pallido e assorto”:

LE MURAGLIE DEL MONDO

1

Vicenda dopo vicenda

nella furia viola, nel delirio

dei giorni, s’imprime, sulla pelle

degli esseri del mondo, l’unghia

del tempo

2

Stridono, le cose,

nella botola – scura – della materia,

oscillano

a un fiato di mondo.

3

E sei, e non sei, sei

dove non è che vita

prima, bollore

d’origine

4

E dove guardi, non è memoria

ma ostinata volontà di essere

non nel nome, né nella gloria

di uno, ma del tutto

che ripiega, a notte, nel suo eremo

cieco, torvo –

di nube

5

E t’immoti, nel tuo ultimo qui

come nel primo, ti incateni

agli stupefacenti velami del mondo

ori che razzano, ombre, lumi

di poco, nomi

che s’inabissano in altri nomi, sensi

petrosi, sepolti

in una voragine di fuoco

6

E in un vimine, in un filaccio

di stoppia, nel viticcio

che si avviluppa – sovrano, irripetibile –

alle correnti, ondose, dell’aria, è

cielo

e fuoco,

terra che smotta, acque

che sprofondano in altre

acque

7

Guardi, e temi

nello stridìo rigoglioso delle cose

che scrollano

da sé ogni nome

vibrano

s’impollinano, tumultuano

all’appello

di un ordine incessante

8

Nell’ordine uncinato delle cose,

nel suo fulgore di fuoco e di vento

in ciò che è

e non è

impazzano

gli atomi della mente, nomi

infrazionabili

9

Si liquefà, il pensiero

nel suo covo – altero, irreprensibile –

di bronzo lucente

10

E affondi

sulla stadera del mondo

al flettersi di un ferro austero,

costante.

Pullula, tra i pesi del tempo,

una congerie di nomi

forme, stampi

11

Vortica, l’infinitesima

frazione delle cose, folgora

come al tempo dei tempi

cognizione, talla, scura

deità.

Siamo sprofondati nel tardo Ottocento, massimo primi Novecento! Le immagini, le associazioni di parole e le metafore sono trite e ritrite, non hanno nulla di originale, sembrano infatti prese da un repertorio stravisto di tanta poesia nota: “la frazione delle cose; il tempo dei tempi; i pesi del tempo; l’unghia del tempo; la congerie di nomi; le acque che sprofondano; i velami del mondo, etc. Che bel déjà-vu.

Ci chiediamo anche, che cosa sia una furia viola, se il poeta alluda ad una giornata a cielo tempestoso. Ci interroghiamo sull’indispensabilità dell’inscrivere in recinto asindetico parenteticamente “le cose” che, incidentalmente, una volta in ellissi, lascerebbero acefalo ed insoggettivato il periodo. Questi oggetti urlerebbero nella caverna della materia e basculerebbero a un fiato di mondo: ma che significa? Se l’ermetismo diventa fiato di ottoni senza far intravedere logicità nel passo esegetico, esso diventa mero acrobatico esercizio parolaio. Andiamo avanti: anche l’essere umano oscillerebbe nel suo presenziare al mondo e segnatamente laddove c’è solo “vita prima e bollore d’origine”: concetti a noi mortali assolutamente da cortina nebbiogena. Il target ottico dell’essere umano non genererebbe alcun ricordo (il che ci pare francamente eccessivo; forse saremo anomali, ma sovente, guardando, scattano in noi rimembranze e stimoli del già vissuto o dell’appetibile ignoto): qualcuno, però, ci spieghi umilmente che cos’è “l’ostinata volontà di essere, ma non nel nome, né nella gloria di uno, ma del tutto che ripiega, a notte, nel suo eremo – cieco, torvo – di nube”. Nell’episodio dell’ἔρως ἐν ἄνθεσιν (Iliade XIV, 292-353), Zeus dice ad Era: “Non temere! Nessun uomo né dio ci vedrà mentre ci amiamo qui sul Gargaro! Io ti avvolgerò in una nube d’oro e non potrà trapassarla e vederci neanche il Sole il cui raggio è ben acuto per discernere!”. Ecco, a noi fa quest’effetto Pontiggia: ci avvolge nella coltre nebulosa della sua orgia trombonistica lessicale e non intravediamo ciò che avviene dentro quella corazza scaltramente articolata dall’atelier rematico che possiede. Lo dimostra l’uso di verbi obsoleti e rari come “razzare”, di uso arcaico e regionale per indicare l’emissione di raggi luminosi, “immotare” per “sporcare, imbrattare di fango”, “smottare” per “franare lentamente” (alzi la mano chi sa che significa la sua base etimologica “motta”!) o vocaboli castigliani come “talla” non presenti in italiano per indicare “intaglio”, “scultura” ovvero la scelta di forme che evidenzino la competenza da purista come “liquefà” a marcare la giustapposizione presente in Latino (oramai transitata in italiano in vera composizione) tra liqueo e facio testimoniata dall’uso più comune della forma sdrucciola “liquefa” al posto della tronca che egli si bea di usare. Se la scienza linguistica di Pontiggia è talmente maledettamente elevata, beh, ragazzi, viva Edgar Allan Poe quando afferma: ”L’ignoranza è una benedizione e per renderla completa l’ignoranza deve essere così profonda da nemmeno sospettarsi!”. Noi siamo benedettamente ignoranti!

Se l’ottone non viaggia accompagnato da archi, tasti e percussioni armonici, non riesce a fare vera sinfonia: saremo drastici, ma a nostro parere Pontiggia racconta frottole contenutistiche. Attendiamo chi, più esperto di noi, ce le riveli come verità universali! Poi dicono che la poesia non si vende!

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