Loop o non loop è Little town blues

Loop o non loop è Little town blues

Loop o non loop è Little town blues

Di Mary Blindflowers©
 

Poesia che sfonda muri, credit Mary Blindflowers©

 

Vera Bonaccini in Little town blues, offre lo spettacolo di una poesia non convenzionale, dai ritmi più o meno incalzanti, belle immagini pervase di talvolta caustiche pennellate. Una poesia lontana dal patetico, da certo sentimentalismo filo-ottocentesco caro ai seguaci della rima banale di stampo pseudo-romantico. Così “il suono di una mano quando applaude ricorda quello di un uccello gambizzato”, nel tentativo di “esaurimento di un luogo cerebrale” mentre l’amianto soffoca montagne”, “la domenica è una pozza soffocante di Moleskine depresse, senza voce” e “il deserto si staglia lento sui ragni neri vomitati dalla gola”. Tutto sembra filare liscio, la musicalità è buona, la profondità non manca, un lettore non potrebbe non essere contento di aver acquistato il libro. C’è un però. Come dire il neo sul viso eburneo, il pelo nell’uovo sodo che si sta per mangiare, l’increspatura sulla tela perfetta: la punteggiatura. Ci sono dei refusi? Dopo aver letto la prima poesia si può pensare che forse al correttore di bozze sia sfuggito qualcosa. La lettura continua. No, il correttore di bozze non c’entra. Non è nemmeno colpevole di quel “pret-a-porter” completamente privo di accento circonflesso e grave… L’abolizione di alcune maiuscole dopo il punto e l’uso di intere frasi tutte attaccate sono volute dall’autrice. Mi interrogo sul senso di quest’operazione, inutilmente. La minuscola dopo il punto appare come posa pseudo-innovativa che non mi piace molto perché l’innovazione nasce dalle idee, non dall’abolizione della convenzione, nel tentativo di sostituirla con qualcos’altro che potrebbe, un giorno, a sua volta diventare convenzione. Loop masochistico e improduttivo a livello creativo.
L’autrice dice che abolirebbe le maiuscole però le usa in alcune poesie e nel titolo stesso, contraddicendosi. La grammatica diventa così in questo libro un gioco che varia a seconda dell’umore di chi scrive e dell’umidità dell’aria. Stesso discorso per le parole tutte attaccate che, secondo l’autrice, danno un “senso di urgenza”. Secondo me comunicano invece un senso di negligenza e di disordine, come oggetti affastellati alla rinfusa, che hanno anche il difetto di rallentare il ritmo. E proprio sul ritmo alcune annotazioni le farei. “Spleen”, per esempio, scorre come acqua di fiume, gradevole all’orecchio, fino a che l’autrice non ha la brillante idea di incepparsi nel verso di “smartphoto-smartphone di noi”, che come effetto collaterale lega pesantemente la lingua. Idem per quel verso “senso di sesso” che fa crollare il ritmo, depresso anche dall’uso di alcune parolacce nel testo, “parole come tutte le altre”, a detta dell’autrice. Il loro uso dovrebbe essere rafforzativo. Si ottiene invece l’effetto contrario perché danno l’impressione di una forzatura, come un “ce le metto perché io le uso e in qualche modo voglio farle entrare nel discorso”. In “To Scratch”, la musicalità è buona poi arrivano “quei carri allegorici di “sto cazzo” con quel “di” che rallenta penosamente lo scorrere. Il termine scurrile appare gratuito perché direttamente mutuato dall’espressione quotidiana. Sarebbe stato meglio dire “del cazzo”, per la scorrevolezza del verso, senza ricalcare il di e lo “sto”, come aborto del dimostrativo, utilizzato probabilmente dall’autrice nella vita di tutti i giorni. Ed ecco come una doccia fredda il “tuttoquelchenonvorrai” di “Oroscopo”, rigorosamente attaccato, che ti fa esclamare: “mah”. Lo “sciroppodenso” invece mi piace. Garbata l’unione di aggettivo e nome, perché scioglie ritmicamente il testo verso uno scorrere, un andare… Invece attaccare cinque parole è operazione che fa sorridere, perché non da niente al testo, se non la posa di chi vuol definirsi sperimentale muovendo la posizione delle lettere, senza rendersi conto che la sperimentalità è sempre e soltanto nelle idee, che pur ci sono, vive e profonde.
Ho chiesto all’autrice il perché di queste scelte. Vi posto qui di seguito il dialogo sulla chat di fb che ne è venuto fuori.
“Che scopo ha iniziare le poesie con la minuscola che usi anche dopo il punto? Il senso delle parole attaccate?”.

“Io abolirei le maiuscole fosse per me, credo nel minuscolo, diciamo e questo spiega il minuscolo a inizio frase/poesia. le parole composite le uso spesso per legare un certo tipo di immagine o discorso”.

“Anche io uso parole composte da un aggettivo e un nome, per esempio, o due aggettivi ma non una frase intera, è una mortificazione della grammatica. Secondo me in questo il libro un poco si perde… Poi una poesia tipo “Tra titolo e tritolo” che parte al top, bel ritmo, si perde con quel “il senso del sesso” che fa incespicare la lingua… Noto ogni tanto una frenata nei tuoi testi che aliena un poco il ritmo, lo frena”.

“Tra titolo e tritolo” è una poesia particolare (infatti ero in dubbio se pubblicarla o meno poi si è deciso di sì), il sesso sublimato è ovviamente riferito a un fatto reale quindi ha senso come discorso ma poco come poesia, lo riconosco…

“Diciamo che tutto il libro così com’è, inizio poesia e frase minuscola, parole tutte attaccate, parolacce incastonate male, sembra più una posa che un vero tentativo di innovazione”.

“L’ho sempre usato molto il collegamento tra parole (fino all’unica frase tutta attaccata), rimembranze beat più che altro… Le parolacce le uso in poesia come nella vita reale”.

“L’inserimento delle parolacce appare un po’ forzato, un po’ come volerle infilare per forza nel testo. Appaiono artificiose”.

“Per chiunque mi conosca dal vivo sembrano normalissime, te l’assicuro, però capisco il tuo discorso”.

“Dal vivo è un’altra cosa, ma qui sembrano usate con lo scopo di rafforzare il discorso, forzando un po’ il testo”.

“Può darsi. Uso le parolacce perché per me sono parole come tutte le altre”.

“Parolefantasma tutto attaccato invece mi piace e poi in “Multidimensionalità” usi il maiuscolo”.

“Sì lì sì”.

“Se poniamo “l’abolizione della maiuscola” come regola, nulla vieta di usare la maiuscola comunque; le regole esistono proprio per essere aggirate, no?”.

“Ecco l’hai detto, “l’abolizione della maiuscola può diventare regola” a sua volta suscettibile di essere aggirata. E l’innovazione dov’è? In questo continuo aggiramento? Sa un po’ di loop questo aggirare una regola per crearne un’altra… L’aggiramento stesso diventa regola che poi occorre aggirare, all’infinito. Non lo trovi triste? Voglio dire non sarebbe meglio lasciar perdere le convenzioni e concentrarsi sulle idee? E quel povero prêt-à-porter senza ombra di accenti è voluto?”.

“Sì, perché non mettendo gli accenti volevo proprio esaltare il fatto del “prêt à porter” come esempio del “lo usano tutti ma nessuno sa che vuol dire”, nel senso di un qualcosa di largo consumo”.

“Forse bisognava dirlo nella prefazione invece di lasciare il lettore a risolvere enigmi”.

“Ma no, perché?! è divertente risolvere enigmi. poi, onestamente, non credo sia sempre necessario spiegare tutto. credo nell’autodeterminazione delle menti”.

“Fino ad un certo punto, le scelte radicali devi spiegarle se no è inutile farle”.

“No, non sono d’accordo. le scelte (radicali o meno che siano) si fanno; nel momento in cui le si spiega già perdono di significato. è la “situazione” che conta, non la spiegazione della stessa”.

“Se tu fai una scelta radicale di non mettere il punto devi spiegare la tua scelta altrimenti perde di senso perché la spiegazione non è scontata e se non spieghi scrivi solo per te e allora non pubblicare perché pubblicare è comunicare e per comunicare devi spiegare e servire dubbi. Ci sono scelte che non si spiegano perché sono ovvie. L’uso non corretto della punteggiatura spiegalo, poi dopo che me lo hai spiegato ti dico sì, concordo, no, non mi piace. Io opto per la seconda opinione, dato che non ne vedo l’utilità”.

“Son opinioni. francamente, se volevo spiegare, mi dedicavo alla saggistica invece di scrivere poesie”.

“Opinioni. La saggistica non sempre spiega, anzi, ha lo scopo di suscitare altri dubbi spiegando”.

“Il “corretto” e il “non corretto” sono convenzioni; chi l’ha detto che non terminare una poesia con il punto non è corretto?! Sicuramente suscita altri dubbi ma spiega, sennò non può suscitare niente, no?”.

“Tutto è convenzione, anche quella di usare la minuscola ad inizio poesia lo è, diciamo che la scelta radicale se è approvata, diventa a sua volta convenzione… Non mi suscita niente la sostituzione della convenzione con qualcosa che potrebbe a sua volta diventare convenzione. Non è innovazione, è un’operazione inutile al livello di sperimentalità. L’esperimento è l’idea”.

“Può essere”.

“Instilliamo questo dubbio nel lettore”.

 

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