Realtà, sbrachi e baci

Realtà, sbrachi e baci

Realtà, sbrachi e baci

Realtà, sbrachi e baci

I giochi, credit Mary Blindflowers©

 

Paolo Durando©

Realtà, sbrachi e baci

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Nel corso degli ultimi decenni molto è cambiato nella nostra percezione della realtà.
Alla base c’è un rapporto differente col tempo, segnato da una costante accelerazione e dalla conseguente alienazione, come ha ben evidenziato il sociologo tedesco Helmut Rosa. Questo non può non coinvolgere, tra l’altro, anche la ricezione dell’arte in genere e della narrativa, sia letteraria che cinematografica.
Quasi tutta la produzione del ‘900 appare oggi, infatti, come lenta, cervellotica. Ciò che precede il 2000 è considerato obsoleto da tanti giovani e non solo. La durata massima della continuità dell’attenzione è ai minimi termini, attorno ai 20 minuti. Qualsiasi cosa stiamo facendo veniamo continuamente interrotti: conversazioni, pasti, sguardi, pensieri. Arriva la notifica, il messaggio su whatshapp, il nuovo post. A fronte di tutto ciò, la durata di film, talk-show televisivi e anche romanzi, spesso si dilata a dismisura, forse in un tentativo estremo di catturare per sfinimento i destinatari renitenti. Le puntate dei famosi sceneggiati della tv in bianco e nero, o i varietà del sabato sera, che tanto hanno inciso nell’immaginario dei boomer, duravano circa un’ora, venivano trasmessi a cadenza settimanale, senza interruzioni pubblicitarie. Oggi durano fino a tarda notte, sperando di arrivare in qualche modo a lambire la consapevolezza di chi li segue distrattamente, tra la cena, la sistemazione dei bambini, la chattata. Anche i film durano in media di più e puntano essenzialmente su azione, velocità, ritmi frenetici. Ogni indugio, ogni declinazione d’atmosfera e sfumatura induce allo sbadiglio.
Non possono che divenire oggetto di studio in ambiti ristretti e specialistici i film di Tarkovski, Antonioni, Pasolini, Ferreri, Bergman… Persino Fellini, in effetti, con il suo immaginario strabordante, le sue scene affollate, certamente non “lente”, potrebbe essere considerato pesante. Ad essere noiosa stavolta è la sua individualità, l’ambizione di condividere il suo inconscio, le sue idiosincrasie, qualcosa di unico e irripetibile, non accessibile per scorciatoie.
Questo vale anche per la letteratura. Fra gli scrittori del nostro 900, Gadda è abbordato solo dai pochi irriducibili che aspirino a fare un’esperienza anche linguistica, in un frangente in cui editor ed editing hanno consolidato una prosa “professionale”, più o meno povera a seconda dei target di riferimento, in quanto tutto parte dal marketing e tutto vi ritorna.
Potremmo collocare alla fine degli anni ‘70 il momento in cui hanno iniziato a venir meno certi filtri espressivi, certe ritenzioni. Fino ad allora si tendeva a differire e centellinare i picchi emotivi, per rappresentarli al loro massimo peso specifico. Oggi non si può più fare. Si è costituita una civiltà dello sbraco, in cui il “risparmio sul dispendio di energia psichica”, ciò che Freud vedeva nella ricezione del motto di spirito, e che riconosciamo alla base del suo concetto di sublimazione, non ha più ragione di essere. Effetti speciali e immediatezza sono il primo obiettivo. Lo stesso umorismo, in effetti, è stato soppiantato dal comico. L’ironia e la parodia, meno dirette, sono riconosciute e percepite sempre più a fatica.
Anche la parola si staglia meno nitida, meno corposa, a partire dalla conversazione quotidiana. A maggior ragione lo si nota nell’incapacità di recitazione di tanti attori, come è evidente in molte fiction attuali. Una malintesa idea di naturalezza porta a pronunciare le parole approssimativamente e troppo velocemente, con forti accenti regionali, magari sussurrando. Ne sanno qualcosa gli anziani, spesso costretti a ricorrere ai sottotitoli perché non capiscono un’acca di quanto viene detto. Se un tempo le parole erano pietre, ora sono anch’esse… fluide.
Come esempio cruciale della peculiare “rudimentazione” dei nostri tempi, possiamo riferirci ai programmi televisivi più popolari. Il meccanismo del reality si è infiltrato ovunque. A dominare la scena sarebbero l’autenticità, la spontaneità delle azioni e reazioni. Sembrerebbe che le persone debbano comportarsi e interagire senza inibizioni, rivelando appieno se stesse. Il “lei” è scomparso, come tendenzialmente accade nella vita reale, perché si deve dare l’idea che tutti siamo amici, in un mondo confidenziale dove facciamo a gara di empatia, pronti al dialogo stimolante, alla comprensione solidale. Un mondo in cui il vip di turno è molto alla mano, è uno di noi, prepara i tortellini come le nostre amate nonne, sullo sfondo dei colli toscani o piacentini. Si mostra un’esasperata affettività, in un’epidermica ostentazione di baci, sorrisi, abbracci. E’ un volemoci bene universale, sotto violenti riflettori, tra colori sgargianti che costringono a ricordare, per contrasto, le sobrie scenografie delle antiche Canzonissime, pur disprezzate da Pasolini, in cui anche nelle sigle con la Carrà c’era memoria delle avanguardie del 900, dadaismo in primis. Oggi, in questa forzata utopia dei cuoricini, in questa prolusione di fuxia e azzurri, sono saltati paletti, confini. La civiltà dell’endemica informalità pare agli antipodi di quella pirandelliana, quella dell’avvocato paludato che, di nascosto, si metteva a quattro zampe per giocare alla carriola con la sua cagnetta. Oggi per lui non ci sarebbe nessun problema a fare questo in pubblico, a maggior ragione in televisione. Sarebbe la prova di quanto non se la tiri, di quanto sappia ammiccare, essere vero nonché “irriverente”.
Eppure, dietro a questo per certi versi seducente scenario, non c’è nessuna verità. Soprattutto, non c’è libertà di sorta. Questa sorridente landa multicolore e multiforme è più costrittiva e subdola del contesto che imponeva il ritegno borghese come oggettivo crinale di civiltà.
Oggi l‘avvocato può certamente disinibirsi davanti a tutti, ma all’interno di un preciso recinto, allestito dai centri di comando, dai gestori dell’informazione, quelli che qualcuno magari definirebbe ancora “poteri forti”, assai raramente identificabili in nomi e cognomi precisi. Nelle nostre avanzate società occidentali è stato approntato un circo anche abbastanza spazioso, in cui molti di noi, nel gioco delle parti, sono liberi di manifestarsi, di sproloquiare. E di litigare, naturalmente. Non si vive di soli baci. Laddove sono in ballo “le cose serie” gli ego vengono aizzati a favore di pubblico, ci si morde e ci si azzanna su ogni questione, comprese quelle di geopolitica internazionale, che richiederebbero ben altri livelli di informazione e di studio. Si prende posizione, come in tifoserie calcistiche, su guerre e catastrofi di cui non si è seguita la genesi nel corso dei decenni.
È il gioco che ci gioca. Questo nostro esagitarci ci placa e ci illude. In realtà siamo molto reticenti e moderati nelle cose che davvero decidono della nostra vita quotidiana, quindi ciò che più conta, perché l’essere umano è programmato per partecipare autenticamente solo a ciò che rientra nel suo raggio d’azione e non esistono, purtroppo, così, “in astratto”, l’amore, la solidarietà e, già che ci siamo, l’empatia.
Anche nel campo culturale, dove sono importanti relazioni e rendite di posizione, siamo usi a tutte le mediazioni, prudenze del caso. Si pensi a un titolo come quello del pamphlet femminista di Carla Lonzi (di cui in questo periodo si sta tornando a parlare in occasione della riedizione dei suoi scritti), pubblicato nel 1970, “Sputiamo su Hegel”. Oggi difficilmente sarebbe pensabile. Ora siamo più attenti, quando sono in ballo il canone, le autorità consolidate.
Nella libertà apparente dei giorni cupi della post-realtà, mentre facciamo gli intellettuali, gli artisti, ma anche gli chef o gli influencer, e ci avventiamo sulla parte di ossi che vorremmo ci spettasse, battendoci per un riflettore a nostro vantaggio, ci dilettiamo pure di complottismi appaganti e risolutori, di semplificazioni spettacolari che sono, anche queste, delle scorciatoie. Fino ad arrivare a quei terrapiattismi e neobigottismi che ci fanno raschiare il fondo del barile, in una tragedia che diventa farsa.
Quelli che vanno arredando e foraggiando il circo non sono tutti d’accordo tra loro. Nient’affatto. È questa l’ingenuità dei complottisti, di coloro che sopravvalutano le capacità umane di organizzazione, pianificazione, lungimiranza. Semplicemente, hanno soldi e sanno come farne sempre di più. Hanno raggiunto le stanze dei bottoni per caso, per fortuna, per oggettiva abilità e si sono accomodati in vedetta. Di noi hanno paura e disprezzo. Ma anche compassione e, persino, invidia.
Perché le contraddizioni sono tante, le strade sono molte e, chissà, forse ne restano da scoprire e percorrere, fino a quando a qualcuno resterà il gusto della conoscenza, del pensiero critico, in una notte in cui non tutte le vacche, ancora, sono nere.

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DESTRUTTURALISMO Punti salienti

Libri Mary Blindflowers

 

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