Amalgrab, Guergana Radeva, romanzo

Amalgrab, Guergana Radeva, romanzo

Amalgrab, Guergana Radeva, romanzo

Amalgrab, Guegana Radeva, romanzo

Amalgrab, Guergana Radeva, 2007, credit Antiche Curiosità©

 

Mary Blindflowers©

Amalgrab, Guergana Radeva, romanzo

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Amalgrab, ovvero lo specchio delle brame, Guergana Radeva, editato da Silvia de Marchi, 2007. Il romanzo introduce man mano che il lettore si addentra nella lettura, tutta una serie di personaggi surreali a cui è impossibile affezionarsi, perché sono sfuggenti, in parte mostruosamente amorali e lontani dalla quotidianità di un uomo medio. Non è detto che questo sia un difetto, anzi, potrebbe essere un pregio, come del resto anche la prosa, bellissima, leggermente tendente ad un barocchismo che però non stanca e nemmeno disgusta nelle scene più crude, in quanto la crudezza è mitigata dalla raffinatezza dello stile descrittivo ma non pesante. Anche quando l’autrice descrive minuziosamente, lo stile ammalia. È chiaro che la Radeva sa scrivere e lo fa piuttosto bene, facendo volare le parole in contorsioni ed equilibrismi che attraggono il lettore, con una prosa stracarica di aggettivi ma efficace nel comunicare straniamento, a tratti leggermente ridondante e gradevolmente elencativa:

Così ti alzi e prendi la prima nave, il primo treno, il primo aereo o ti incammini, semplicemente aspettando invano l’ebbrezza, ci hai fatto il callo, e sconfitto ti rendi conto che l’unica via che hai è quella del ritorno… torni a casa che non è più casa tua e li trovi tutti, così come li hai lasciati… sono là, lo sono sempre stati, tonti, grassi, lucidi come delle arance trattate con gommalacca, calibrate, perfettamente a norma, e ti guardi dentro, smunto, raggrinzito, strapieno di semi maturi che non germoglieranno mai, perché non hai terra dove piantarli, l’hai persa la tua terra… (p. 112).

Seguo le vie del mare perché è da sempre che seguo la rocca dell’orizzonte marino arrotolare e srotolare i peregrini fili uccellini attorno ai fusi dei solstizi. Vedo l’acqua mutar luce: verde grasso, smeraldo, blu cristallo fino al ghiaccio indaco abissale, verde olio fermo, l’acqua pesante del porto, e quando alzo gli occhi verso la nuova terra, muoio. Muoio, desiderando la cecità. Mentre le gru rugginose del porto, che da bambina paragonavo a giganteschi scorpioni di ferro, affondano i pungiglioni nelle mie iridi e i bianchi vicoli contorti stringono nodi di memorie, appena sciolti, trascinandomi nell’utero vischioso e maligno della Città da cui sto fuggendo… (p. 119).

Il Carnevale come tempo non-tempo diabolico e irregolare, innestato nel tempio assurdo della trama, fa da sfondo e viene descritto minuziosamente come piano parallelo rispetto alle litanie delle messe, non senza una punta di polemica sociale che sinceramente ho apprezzato. Bambini prodigio parlano appena nati durante il Carnevale, fanno discorsetti che sono “frottole belle e buone. Sono maschietti e femminucce magrolini, scattanti, burloni dalla risposta sempre pronta sulla punta della lingua”. Da grandi sarebbero diventati “avvocati, giornalisti, attori e politici” (p. 165), tutte categorie di bugiardi, in sintesi. Come darle torto?
Ma una buona parola la Radeva la riserva anche agli accademici che hanno “trasformato le aule in luoghi di culto”, facendosi adorare “come sposi immacolati della Scienza” a cui hanno in realtà cavato gli occhi, creando “un idolo perfetto e astratto” di cui sono diventati “onnipotenti” e “gelosi mediatori” (p. 168).

I contenuti ci sono nel romanzo, ce ne sono tanti, ci sono anche accostameni arditi, parti che sanno stupire. La prosa è ben lontana dalle mode da scuola di scrittura, per fortuna, e anche dalla dinamica dell’eroe per forza. Qui non ci sono eroi, infatti, ma folli che giocano a vivere in poco fondanti disvalori. L’unico difetto è che la trama è a tratti sgranata, il lettore a momenti fa fatica a seguirla perché i paragrafi non sono collegati in modo perfetto, sono un poco sfilacciati nell’esposizione, alcune parti poi sono appesantite dal desiderio di far conoscere l’esoterismo che influenza anche i nomi, a dire il vero un poco ridicoli. Verbum, che viene chiamato Ver Bum ad esempio. I pochi dialoghi sono inverosimili e incomprensibili. La Radeva non ha dialoghi forti:

“Non parliamo di morte, Luz, per carità”.
“Suvvia Ver non essere così ipocrita! La morte e la vita sono due sorelle gemelle… eppoi oltre ad esse non esiste altro”.
“Il Carnevale”.
“Già, il Carnevale, il fratellino bastardo”.
Intanto Ver Bum se ne va.
“Cos’ha?” chiede Zoe.
“È innamorato” (p. 198-199).

Almalgrab è anche un romanzo olfattivo, fatto di odori, di cibo antropomorfizzato e di un certo manierismo decadente e vagamente horror, un romanzo in cui si affastellano immagini su immagini, lussuriose, verminose, putrescenti e splendide. L’opera, non priva di un certo genio e di parecchie felici intuizioni, ha però un risultato nel complesso piuttosto confuso, perché ha poca coerenza espositiva e spesso salta di palo in frasca, per desiderio di comunicare in sovrabbondanza espositiva sensi arcani che però non sono ben dosati. Le digressioni esoteriche sono infatti eccessive, appesantiscono molto la narrazione, non al punto da annoiare, ma soltanto perché la prosa è bella, tuttavia fanno perdere più volte il filo di una trama che in fondo è costituita principalmente su effetti speciali, parti d’uova, amplessi amorali, vite surreali, diabolicità e richiami ancestrali a una sessualità primitiva e pre-adamitica.
Nonostante tutti i limiti strutturali dell’opera, Amalgrab, è comunque un romanzo molto interessante, diverso, che sfida con una prosa ancora felicemente inattuale, le convenzioni letterarie da primina della scuola di scrittura creativa che è inutile per chi vive la letteratura con intensità. La veste editoriale in formato piccolo è molto gradevole, carta buona, bella copertina. Le illustrazioni di Ruffino forse un po’ troppo convenzionali per un romanzo così inusuale, un po’ deludenti.

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DESTRUTTURALISMO Punti salienti

Libri Mary Blindflowers

 

 

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