Di Marco Fiori©
I quattro STATI DI UNA FUCILAZIONE
le matrici TAGLIATE e l’iconografia dell’ostrica
di Marco Fiori
La Fucilazione, realizzata nel 1955 e considerata una delle acqueforti giovanili più interessanti di De Vita, subì durante l’esecuzione alcuni ripensamenti prima che la matrice venisse conclusa al terzo e ultimo stato.
Del primo stato sono note pochissime prove di stampa, del secondo risulta una tiratura (probabilmente incompleta) di 25 esemplari e, del terzo stato definitivo, una tiratura regolare in cinquantacinque esemplari realizzata nel 1960, in seguito alla cresciuta notorietà dell’artista dovuta alla sua partecipazione alla XXX Biennale di Venezia.
Parecchi anni fa Pasquale Ribuffo della “de’ Foscherari”, amico e gallerista “storico” di De Vita, mi raccontò che Luciano, di carattere un po’ “guascone”, prima del successo veneziano non aveva richieste di mercato per la sua grafica e, occasionalmente, aveva venduto o donato alcuni fogli della Fucilazione siglandoli a matita con numeri dei quali non tenne traccia né memoria. Quando, dopo il 1960, avvertì la necessità di eseguire una tiratura regolare di quella che era la sua opera più richiesta, per evitare che vi potessero essere due esemplari con lo stesso numero a causa dei fogli già singolarmente stampati e ceduti, pensò di scrivere a matita su ogni foglio la dicitura “seconda tiratura” e pensò anche di caratterizzare la numerazione di questi 55 esemplari con una frazione che prevedesse una cifra araba al numeratore e romana al denominatore (da 1/LV a 55/LV). A dire il vero anche questa particolare numerazione, forse per disattenzione o per pigrizia, non venne riportata su tutti i fogli ma solo sulla maggior parte di essi, a riprova, come mi avvertì Andrea Emiliani nel 2018, che le numerazioni a matita indicate da De Vita nelle opere giovanili erano “inaffidabili” e che, in realtà, molte lastre avevano tirature più basse di quanto Luciano volesse far apparire.
Un analogo caso di “seconda tiratura” con indicata la numerazione da 1/LV a 55/LV risulta anche per altre due matrici: Les amants (o Le figure) e Deucalione e Pirra, entrambe opere del 1959-60 per le quali è presumibile far valere le stesse considerazioni espresse per La Fucilazione.
La particolare rarità delle stampe coeve alla realizzazione della matrice, in particolare quelle realizzate fino ai primi anni Sessanta, è accentuata dal fatto che De Vita, dal 1970 in poi, tagliò la maggior parte delle lastre giovanili più importanti e le sagomò in forme diverse per poi riutilizzarle come spezzoni di matrici plurime per altre stampe edite in pregiate cartelle (“Nel mio giardino”, “Le cose che volano”, “I segni sparsi” e alcune altre.) o in fogli singoli di grande formato.
Ecco pertanto che le matrici originali dei “sabba”, delle “ostriche”, delle “fucilazioni”, delle “gocce”, dei “nuclei”, delle “foglie”, insieme a tante altre, da quella data non sono più stampabili nella forma originale. A questo curioso destino sono scampate tre importanti matrici realizzate per il libro L’inverno del Signor d’Aubignè, edito dalla Palmaverde di Roberto Roversi nel 1960 e depositate, ancor oggi, negli archivi della “Pendragon edizioni” di Bologna.
L’Ostrica ha sempre influenzato i temi e le scelte iconografiche di De Vita. Osservarne l’evoluzione come soggetto, fin dalle prime opere grafiche, è particolarmente utile per comprendere la giovanile inquietudine dell’artista e gli sviluppi della sua espressività. Andrea Emiliani, nel fondamentale testo sull’opera grafica di De Vita del 1964, scriveva:
Un punto di contatto più ravvicinato e fermo con l’opera di Morandi è, ad evidenza, la “Grande ostrica” eseguita, nella sua prima stesura, fra la fine del ‘53 e gli inizi del ‘54. Ed è questa, nella passione avvolgente, oscura del tema antico (Rembrandt) e nell’urgenza del dettato moderno, la prima opera di grosso impegno di De Vita e insieme, d’acchito, una delle più belle incisioni italiane che io conosca. L’ostrica di De Vita, gettata sul nero banco scolastico, s’affloscia lentamente come un polmone sfiatato, grommando lubricamente la superficie ove appoggia. Attorno ad essa, come già in Rembrandt ed in Morandi, lo spazio si avvita a spirale, e questo movimento coinvolge l’oggetto stesso che, com’è evidente, ha un suo punto luminoso centrale, un battito quasi, una pulsazione sopita, perno formale della composizione e indice psicologico nettissimo.
Questa visione scomposta di De Vita, anche nella versione più assettata del ‘54 o in quella addirittura gelida e frenata di un anno dopo, è un segnale, un avvertimento per la storia stessa dell’incisione italiana, e dunque entro la sua apparentemente immobile correttezza tecnica: che cioè la violenta espressività del gesto, ormai tutt’uno con la perfezione del segno, è entrata in zone dove è il contenuto che si mescola all’inquietudine buia e profondamente naturalistica dell’artista, fino a che quest’ultima diviene oggetto stesso, concretandosi in questa sfatta e dilagante corporeità, cupa e irritata, misteriosamente organica, quasi fosse un sedimento marcescente, un greve olezzo dal fondo di cupi angiporti. Per De Vita, mi sembra chiaro, a questo punto, l’adolescente carica espressionistica, cessando di essere aggressione ed empito incontrollato, si fonde finalmente in un impegno che è significazione, così sentimentale che stilistica, maturità del suo linguaggio. Con questa eccezionale serie delle “Ostriche” De Vita è inoltre entrato in possesso assai precocemente di alcune idee in merito all’osservazione naturalistica, che più largamente troveranno spazio in anni successivi, e cioè intorno al ‘57.
Incisa in alcune stupende acqueforti alla scuola di Morandi, l’ostrica ritornerà dal 1960 in poi in numerose lastre e disegni, spesso camuffata in forme aggrovigliate e scomposte, quasi metafora antica della prigionia fra anima e corpo o, forse, anche sintomo dell’insofferenza dell’artista per quello che si usa definire “l’ideale dell’ostrica” cioè il timore, tipico dei caratteri più insicuri, di disconoscere ed abbandonare i valori legati alla famiglia e ad ataviche tradizioni.
Le lastre giovanili delle ostriche, alcune delle quali riutilizzate o replicate come frammenti del suo passato, sono seguite nel 1974 dall’acquaforte “I matricidi”, forse il soggetto più emblematico della maturità incisoria di De Vita. In questa incisione (seguita da una seconda versione nel 1978) appare nuovamente una figura doppia, un soggetto-gemello come in alcune lastre giovanili ma, a differenza delle oscure inquietudini che influenzarono i sabba, e le fucilazioni del periodo accademico, l’artista ha superato da tempo i drammatici ricordi della sua adolescenza e, finalmente, si propone come carnefice degli antichi incubi simboleggiati dalla valva di una enorme ostrica, madre-matrigna degli stessi.
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DESTRUTTURALISMO Punti salienti