O miei prodi, non son danze, son casuali somiglianze

O miei prodi, non son danze, son casuali somiglianze

O miei prodi, non son danze, son casuali somiglianze

Di Mary Blindflowers©

O miei prodi, non son danze, son casuali somiglianze

The Barons brizzifrizzi, Naze Tower Gallery 2019, by Mary Blindflowers©

 

Il termine plagio, utilizzato per la prima volta da Marziale in riferimento al furto di alcuni suoi versi , è entrato oggi nell’uso corrente per indicare la copiatura illecita di un’opera di ingegno, meglio definita e accettata come violazione del diritto d’autore.

Zara Algardi specifica di cosa si tratta:

Il plagio è stato distinto in «implicito» – soppressione della paternità reale senza attribuzione di falsa paternità, ossia riproduzione dell’opera altrui senza indicazione della fonte – ed «esplicito», ossia riproduzione abusiva dell’opera altrui con usurpazione formale della paternità. La prima forma è frequente specialmente nelle pubblicazioni di carattere scientifico, didattico, critico, e nella stampa periodica.

Ovviamente il fatto che un modus vivendi di certa classe intellettuale sia diffuso, non significa affatto che sia lecito ma che può diventarlo. Nel Grande dizionario della lingua italiana, diretto da Salvatore Battaglia, Torino, UTET, 1986, vol. 13, p. 634, si legge alla voce plagio:

Appropriazione indebita di un’altrui opera dell’ingegno […] o di una parte di essa, consistente rispettivamente nel pubblicarla con il proprio nome o nell’inserirla in una propria opera senza indicarne la fonte (e, per la legge, tale appropriazione può consistere, oltre che nella riproduzione testuale dell’opera altrui, anche e più spesso nella contraffazione mascherata di essa, vale a dire in una mera imitazione o riproduzione dell’opera altrui nella sua identità sostanziale, cioè in quell’insieme di caratteri formali e di contenuto, diversi a seconda del tipo di opera, che concorrono a determinarne la specifica individualità). – In senso concreto: opera, brano o passo riprodotto o pedissequamente imitato da un altro autore senza citarne la fonte. – Per estens: mancanza di originalità culturale, di creatività.

Affinché ci sia plagio non deve essere indicata la fonte. Per esempio se faccio un libro che cita le testimonianze di qualcuno in merito ad un avvenimento storico oppure ad un fatto, e le attribuisco a me, sto violando i diritti d’autore, ma se invece metto le testimonianze tra virgolette e in nota la fonte, di tutto si può parlare tranne che di plagio letterario, dato che nome e cognome del testimone sono chiaramente indicati dentro il testo e senza possibilità di equivoco. 

Plagio è dunque appropriarsi di un’opera scritta da altri dicendo in poche parole che è la propria e dimenticandosi in mala fede la fonte originaria.

Ma questo non basta. L’opera deve essere frutto di elaborazione creativa.

E qui la legge diventa curiosa.

Chi decide se l’opera è frutto di elaborazione creativa oppure no?

Un giudice. Ma il giudice è forse un esperto di letteratura?

Certamente no.

Allora si decide a seconda delle perizie che vengono fatte sul testo da esperti.

E gli esperti chi sono?

Scrittori professionisti, accademici.

Se il plagio viene compiuto da un accademico nei confronti di un Pinko Palla, la parola dell’accademico vale di più di quella di un Pinko, e le perizie di scrittori professionisti che sostengono il Pinko valgono sempre meno della parola del suddetto accademico solo perché egli è accademico, sostenuto da altri accademici par suo, come si dice, noblesse oblige. Se poi l’accademico presenta al giudice una lista di accademici a cui avrebbe regalato il suo capolavoro, la parola della casta si rafforza perché il povero Pinko non ha liste di nomi illustri di cui fregiarsi.

Se poi l’accademico si è copiato un documento d’archivio già trascritto e mischiando un poco le parole anche un saggio sopra lo stesso documento, ed è arrivato alle stesse conclusioni, aggiungendo qua e là qualche fonte nota presente in altri libri già visti, per dire che ha fatto un enorme lavoro di ricerca, non paragonabile al lavoro originale, le cose si complicano ulteriormente. Mettiamo caso che il documento trascritto sia antico, per esempio, (un esempio a caso) un manoscritto del Settecento. L’accademico in assoluta malafede dirà che la copia da lui trascritta è un’altra, diversa da quella usata da Pinko, e lo dirà ben sapendo che nell’antichità si era soliti fare diverse copie più o meno identiche dello stesso documento, che comunque è lo stesso. Inoltre il bravo accademico provetto dirà che è un caso che i capitoli del suo saggio sul documento trascritto corrispondono perfettamente come un calco per argomento e conclusioni a quelli del lavoro di Pinko. Una vera combinazione!

Il primo compito di uno storico che si accinge a trascrivere un documento per la prima volta è proprio quello di controllare se sia già stato trascritto da altri. Che senso ha infatti fare la trascrizione di un documento già trascritto? Nessuna. Nonostante l’accademico sapesse benissimo che Pinko aveva già fatto il lavoro di trascrizione del documento, l’accademico, nonostante lo avesse sotto gli occhi da anni senza mai trascriverlo, lo ha trascritto lo stesso e soltanto dopo che è stato trascritto da Pinko. E non solo lo ha trascritto, ma ha ricavato da un documento da cui si potevano ricavare diecimila disparati capitoli di argomento diverso, proprio gli stessi argomenti e la stessa successione di capitoli presenti nel saggio critico di Pinko, usando anche le stesse frasi, identiche spesso parola per parola. 

Tutto questo nella Repubblica delle banane, dei cachi e dei macachi scambiati per uomini, o miei prodi, non son danze, son causali somiglianze?

Eh sì perché siccome il documento d’archivio non sarebbe opera di ingegno, non importa chi l’ha trascritto per primo, sono particolari insignificanti. Inoltre che il saggio sul documento fatto dall’accademico sia praticamente il ritratto sputato del saggio sul documento fatto da Pinko, è casuale, visto che hanno lavorato sullo stesso documento che è molto più lungo della parte trascritta. Pinko ne ha trascritto infatti solo una parte, concentrandosi soltanto sugli argomenti che lo interessavano. E l’accademico ha trascritto, sempre per combinazione, la stessa parte del documento trascritta da Pinko poi, ben lontano dal porsi domande diverse, si è posto le stesse domande di Pinko. Eppure su quel documento si potevano sviluppare ben altri capitoli che Pinko non ha affrontato nel suo lavoro. Nemmeno l’accademico li ha affrontati. Che gustosa combinazione! Del resto perché porsi nuove domande quando c’è un lavoro già pronto da copiare?

Come finirà?

La domanda è un non-sense, si può risolvere forse il quesito del cappellaio matto? 

La risposta non si sa ma si sa, perché si sa già che si sa che non ha alcun senso.

E finirà come tutte le storie di ordinaria follia, col lupo che dice all’agnello che sei mesi prima, quando il povero agnello non era ancora nato, ha parlato male di lui o dal basso gli ha sporcato l’acqua che il lupo beve dalla parte più alta della fonte, perché c’è una giustizia per i poveri e una per i ricchi in questo mondo di lupi e di agnelli.

https://antichecuriosita.co.uk/destrutturalismo-e-contro-comune-buon-senso-punti-fermi/

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