Chico (Buarque) il cantautore minimalista

Chico (Buarque) il cantautore minimalista

Chico (Buarque) il cantautore minimalista

Di Alessandro dell’Aira©

Musica, credit Mary Blindflowers©

 

Decisamente un altro Chico, chansonnier dodecafonico, diverso da quello che crediamo di conoscere. Chico Buarque è approdato al minimalismo nella terza età artistica e anagrafica, quella dei monologhi alticci, fuori di testa e youtubizzati grezzi, delle prove in soggiorno col cane anziché negli studi insonorizzati, dello sguardo perso e del riso che stira le rughe, della magrezza esibita come status finale del momento.

Nei suoi ultimi show è distaccato, sempre più anoressico e lontano dalla platea. Il Chico che invoca il padre perché gli scosti dalle labbra il calice di vino color sangue, il Chico del calembour cálice/cale-se (stai zitto)da bere fino alla feccia nel silenzio imposto dai militari, il Chico del paese ritrovato, ora è una voce libera nel Brasile-Rede Globo, spossato dagli scandali e dal desiderio/timore di un colpo di stato imminente. La scorsa settimana, tenendosi fuori dalla babele, è stato uno degli organizzatori di una protesta di piazza contro l’impeachment di Dilma Rousseff.

Chi non è in grado di distinguere forme da colori a mezzo metro dal naso, o un bottone dall’ombelico, prova saudade di Jobim e Vinicius. Tra i saudadosi ci sono molti coetanei di Chico, cresciuti a pane e bossa Brasil brasileiro, che con buone maniere gridano al tradimento. Non si può essere eternamente uguali a se stessi nei musei delle cere. La Banda è lontana, A Banda passou, e con la banda è passato il Chico del ‘66. Rispetto ad altri come Caetano Veloso e Gilberto Gil, Chico non ha segnato il passo: ha fatto un lungo viaggio, ha scritto romanzi come Budapest Latte versato. Il suo CD minimalista, che circola da quattro anni buoni ed è sempre fresco, adatta versi dimessi e provocatori a melodie quasi mitteleuropee, definite ‘soporifere’ dalla rivista Veja, il cui spirito critico è quello di chi chiama barbari – balbettanti gli stranieri. Si pretende che Chico continui a forzare portiere di auto, come in una notte dei suoi diciott’anni. O che faccia il ministro, che è lo stesso.

Chico non si canta addosso. Interpreta Nina, valtz di una giovane russa e di un carioca passati dalla chat al lettone, dove russa sta per magiara e Mosca per Budapest –; o come Barafunda, la sarabanda delle troppe amate che affollano la sua vaga coscienza di impegnato in un solitario che non riesce, mischia il mazzo e confonde Aurora con Aurélia e Glorinha con Maristela; o Querido diário, l’incontro con chi ha pena di Chico che vive solo, dove si scopre che l’amore è una trama oscura e non passa per l’orifício; o Rubato, il pezzo plagiato da un senza vergogna, al quale si risponde con il furto di una musica altrui, con la falsa confessione di averla comprata; o Se eu soubesse, la rabbia di due solidi amanti che maledicono il primo incontro ma non possono vivere lontani. Sono testi per una musica che a chi non ha orecchio appare sciatta. Parecchio sciatta. E invece si tratta di uno sbranamento lento, che metabolizza l’Europa pazza di se stessa e del tropicalismo verde e oro. L’obiettivo, finché si potrà, è di vivere con amore il Brasile com’è e scampare alla noia di noialtri.

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