Mereu, Prima della pioggia…

Mereu, Prima della pioggia

Mereu, Prima della pioggia…

 

Mereu, Prima della pioggia

Conchiglia, credit Mary Blindflowers©

 

Mary Blindflowers©

Mereu, Prima della pioggia di settembre

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Siurgus Donigala, un paese a vocazione agricolo-pastorale nella parte nord-est della Trexenta. Il lago Mulargia, una fitta vegetazione di sugheri, roveri, lecci e corbezzoli. La forte sensualità caratteriale delle donne, la sobria discrezione degli uomini. Tradizioni misteriose che affondano nell’humus della storia. Credenze millenarie, dure a morire, nonostante il progresso tecnologico, la tanto pubblicizzata civiltà dell’immagine. Credenze che la chiesa cattolica non è riuscita ad estirpare, lasciando che sfociassero in sincretismi talora anacronistici. Danze ancestrali, rituali primitivi all’interno di cripte nuragiche, un’estate popolata di presenze oscuramente evocate.
In questo microcosmo saturo di tensioni e oscurità, tra tintinnii di campanelli apotropaici, strani fenomeni naturali, pani miracolosi, in una Sardegna magica tutta da scoprire, si muove la trama del suggestivo romanzo di Mario Mereu, Prima della pioggia di settembre, edizioni Aìsara. Nanni, giornalista, deve fare un’inchiesta sullo sviluppo economico dell’entroterra isolano. Ritorna per questo motivo al paese dove da bambino trascorreva le vacanze estive. Viene colpito da strani inesplicabili fenomeni. Perché tutti gli abitanti indossano dei campanelli? E cosa significano i segni sulla crosta del pane? A poco a poco la sua concretezza di cronista si sfalda a contatto con una dimensione surreale alla quale è difficile credere.

La chiave del mistero è nel suono, che ha radici arcaiche, commiste alla natura stessa. Brebus è parola, suono saturo di magia, più propriamente verbo, dato che ha un potere. Secondo la tradizione, può allontanare le malattie, disperdere i fulmini, spaventare l’ammutadori folletto, far crescere rigogliose le piante. Però può anche evocare gli aremigus o demoni. E i sardi hanno un loro linguaggio segreto e una danza simbolica: suspu mudu: “Quasi tutti i giorni, dopo l’imbrunire, gruppi di giovani si riuniscono in uno spiazzo sterrato alla periferia del paese e improvvisano una sorta di danza rituale ispirata ai brebus… I partecipanti danzano imbavagliati. Il silenzio è interrotto solo dai ritmici rintocchi delle campanelle che portano legate alle caviglie. Questo rito ancestrale crea un’atmosfera inquietante…”.

Il silenzio che deve essere spezzato dal simbolo, silenzio come preludio all’evento, silenzio denso e preparatorio a qualcosa d’altro: il suono. Testimone consapevole quest’ultimo del nostro esserci nel mondo, del potere della presenza contro la dissolvenza della morte e dell’annientamento.

E che cosa fanno anche quei mamuthones di Mamoiada, maschera e mastruca, quando si muovono agitando i campanacci? Utilizzano il suono per evocare terra, antenati e identità si spera mai perdute nel caos dell’indistinta e vacua modernità.

Un racconto delicato e profondo insieme, quello di Mereu. Lo stile è scorrevole, senza inutili artificiosità o volgarità, così frequenti e spesso gratuite nei romanzi contemporanei. Il finale non definitivo indica forse che niente muore per sempre.

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