Alchimia e cabala alla luce della scienza

Alchimia e cabala alla luce della scienza

Alchimia e cabala alla luce della scienza

Di Mary Blindflowers©

 

Foto Mary Blindflowers©

 

Pietre abbandonate sul ciglio delle strade, sui binari morti di ferrovie in disuso, pietre levigate dal vento e dalle onde salse del mare, modellate dalle mani dei ghiblei, miliari, dello scandalo, del chi ha peccato scagli la prima, pietra di Bologna, meteorite, dura, pura, preziosa, comune, sasso, calcolosi, comica femminile di Pietro, incastonata in un anello, in un collier, simbolo sacro di Maometto…
Ma perché lo è anche quella filosofale?
Perché la pietra è mistero centrale, base di costruzione, bethilo su cui Giacobbe appoggiava il capo per riposare nelle sue visioni, concetto astratto del tempio. Essa è l’inizio e la fine in un uroborico circolo e viene identificata col Cristo stesso dal simbolismo cristiano.


Il lapis philosophorum, pantarba, calamita universale, luce che abbaglia, materia rigenerante nell’Atanor, è il fine de l’alchimia stessa, una ricerca che non ha mai termine, un protendersi, un mutarsi continuo, stadio dopo stadio, luna dopo sole e viceversa. Numeri, esperimenti, lettere, sostanze chiave, nero profondo più nero del nero, fase della Grande Opera, simboli universali nelle chiese, nei templi, esoterismo cristiano-gnostico, porte magiche, reminiscenza di vomiti pagani.
Che dire di quel Saturno impietoso e vorace che divorò i suoi figli? Rea-Cibele, per sottrarre Giove all’ira del padre cannibale fece inghiottire a Saturno una pietra caduta dal cielo ed opportunamente infagottata:
abadir, o alla greca badelion. In questo modo Giove si salvò dalla morte e divenne il Padre degli Dei.
Curiosa leggenda, ma niente nasce per caso, neppure i miti.
Gli stessi nomi di città possono avere per radicale l’etimo Beth, (basta ricordare tra tutte Bethlemme che diede i natali a Cristo) attestante la presenza di un simulacro betilico.
Nel Medioevo la pietra era Chiave dei grandi misteri, come attestano le sette templarie e rosacruciane.
Nella tradizione ebraica è uso depositare una pietra dopo aver visitato una tomba.

“Alcuni glossatori ebrei del Pentateuco asserirebbero che nel luogo in cui fu deposta l’Arca dell’Alleanza v’era la pietra sepolcrale di Abele, masso enorme, rizzato da mano d’uomo”.
Talvolta si accumulavano pietre sulle tombe degli individui reietti per dannata memoria.
E le adultere non venivano forse barbaramente lapidate? Purtroppo succede ancora nel mondo, in un angolo arretrato e remoto, polvere sotto il tappeto che ogni tanto si solleva sui giornali di casa nostra…
Pietra buona e cattiva, pietra-uomo in tutte le sue molteplici, materiali ed arcane sfaccettature.
Impossibile ignorare i criptosimboli. Essi incarnano la dura giustizia, il mistero. Presenti nell’arte, nella letteratura, negli edifici di culto, fanno parte della vita stessa.
Presso tutte le civiltà antiche la pietra serviva a delimitare le proprietà private, ad accogliere il sangue del capro sacrificato, ad attestare con la sua muta ed ostinata presenza l’unzione di re e potenti
Il saturnio
lapis philosophorum va identificato col simbolo muratorio dell’abaco nell’ambivalenza etimologica tra numero e lettera, in un gioco di inversioni e corrispondenze cruciverbali.

Dunque pietra-tutto, pantera, verbo, terminale, della testimonianza, commemorativa, ara, filosofale salvezza, panacea, oro ed onniscienza, superamento della morte e dei confini dell’esistenza stessa in una dinamica esistenziale di indagine e scoperta che partorirà poi la scienza, quella vera, obiettiva, empirica e un po’ snob, quella che dimentica talvolta le proprie origini e prende le debite distanze. Magia, alchimia, simbologia cabalistica. Le origini. Inutile rifiutarle. Esistono al di là delle volgarizzazioni e ciarlatanerie.
Dal mistero la chiarezza, dalle fole della fantasia, l’occhio freddo ed impietoso della verità. L’uomo cerca la pietra filosofale e trova la scienza, eviscera il simbolo e trova se stesso, forse un Dio demogorgonico, inquietante. Di certo non può dimostrarne l’esistenza, ma il suo scopo è forse soltanto la bellezza della ricerca in se e per se, la smania che spinge a trovare un tesoro nascosto sotto la cenere del tempo divoratore. E’ la lotta stessa contro quest’ultimo cannibalico essere, contro quel Saturno sanguinario ed assurdo. Questo il fine.
Guido di Nardo trasporta il lettore nelle corrispondenze della cabala, dell’abaco, della pietra-tutto vivificante che mal si rassegna alla nudità della morte.
La materia dealbata, sotto forma di scheletro biancheggiante può essere vivificata, studiata, trasformata. La paradossale sfida al non-essere, si realizza alchemicamente per capire cosa c’è dentro se stessi, in una lucida
autopsia che rende trasparente la materialità, in un affascinante percorso tra azoth e criptogrammi, “per portare il cielo in terra”.
Alchimia e cabala alla luce della scienza, pubblicato dall’Istituto della stampa nel 1951, rimane ancora oggi, un testo perfettamente godibile, in cui giustamente si afferma che è “meglio osare sbagliando che rinunciare alla conoscenza” e alla luce nell’affannosa lotta contro l’ineffabilità del tempo.

 

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