I Canachi, Peter Patti

I Canachi, Peter Patti

I Canachi, Peter Patti

I Canachi, Peter Patti

I Canachi, Peter Patti, credit Antiche Curiosità©

 

I Canachi, Peter Patti

Mary Blindflowers©

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I Canachi, romanzo auto-prodotto di Peter Patti, è un piccolo gioiello letterario che capovolge tutti i luoghi comuni sull’auto-pubblicazione. È noto infatti che la massa, istigata dal sistema del divismo, non legga più nulla ma compri libri soltanto per vantarsi di leggere autori il cui nome circola ovunque. Invano troverete il libro di Patti sugli scaffali delle librerie del centro città, potrete però acquistarlo on line. La copertina, a dire il vero, non promette bene, troppo standard per un romanzo che standard non è. Ma del resto non è obbligatorio che un autore sia anche un disegnatore e sappia fare copertine originali. La grossa editoria sforna ogni giorno orribili copertine, quindi… Piuttosto concentriamoci sulla sostanza. Di cosa parla il romanzo? Lo dice il titolo stesso e lo si precisa in quarta di copertina:

I Canachi sono i poveri italiani e gli extracomunitari immigrati in Germania, tipi svagati, assurdi, improbabili; una sorta di picari del nostro tempo. Il romanzo, brillante e paradossale, è ambientato nel 1990… e sembra un’involontaria e stralunata epopea di un mondo di emarginandi poco esplorato.

Terribilmente fuori moda nel senso positivo del termine, l’opera di Patti descrive con accenti crudi ma sempre raffinati, un mondo di cui la contemporanea letteratura borghese, fa volentieri a meno, quello dei marginali. Non che la borghesia da podio oggi non cerchi di suscitare patemi attraverso la descrizione di guerre, sfortune (sempre altrui o soggettive non universalizzate) e personaggi lacrimevoli e poveri, ma si sente che la maggior parte degli scrittori parla di cose di cui non capisce un beneamato tubo fritto; si sente che l’occhio che osserva non è realmente partecipativo, non vive in prima persona lo stesso dramma dei personaggi che pur descrive. La stessa Morante quando parla degli operai è terribilmente inautentica. Si avverte che parla di un mondo a cui non appartiene. Patti invece sa quel che scrive e affronta la materia dell’emarginazione sociale degli immigrati in modo coinvolgente, attraverso un stile mai volgare. Non ci sono discese al basso stilistico nemmeno quando l’autore parla di situazioni scabrose, di amoralità palesi, di misoginia, di pedofilia e turpitudini varie. Patti riesce con grande maestria stilistica ad essere crudo senza mai tuffarsi nel cattivo gusto. Lo stile, a parte qualche “lui” usato come soggetto, che avrei evitato, è impeccabile. Raramente si riscontra negli scrittori contemporanei la capacità di far volare le parole, far fare loro giravolte espressive cariche di significati che a tratti puntano all’onirico simbolico, per poi ricadere nel dramma di una realtà singolarmente descritta. I personaggi sono ben caratterizzati, tanto che sembra di vederli, ma le descrizioni non sono mai ridondanti o pesanti. La prosa scorre, ha un ritmo di impronta modernista che dà un gusto intellettuale alla pagina scritta senza però mai indulgere a quell’intellettualismo borioso che purtroppo devasta tanti scritti odierni e lodati premi Strega.
L’autore riesce sempre a mantenere un equilibrio sorprendente tra la crudezza di ciò che afferma e uno stile che si mantiene “alto” fino alla fine e che denuncia approfondite letture e conoscenza di un avanguardismo non tanto per fare, ma commisurato e piegato alle proprie esigenze di rappresentazione scenica.
Il personaggio, Marco, un cuoco-letterato, vede la realtà che lo circonda con occhi impietosi e uno spirito romantico a cui non sa rinunciare, nemmeno nei momenti più duri, nonostante le difficoltà del presente: “Marco è un cittadino rispettabile: un probo manovale dotato di raziocinio ellenico, con l’ossatura di titanio ricoperta da pelle di elefante” (p. 56).
Marco, il senzapatria che fugge dall’Italia per cercare fortuna in Germania, conosce bene le camarille del destino, vi si adatta, osservando e riflettendo non soltanto sul tema centrale dell’immigrazione italiana all’estero, ma sulla storia, sulla guerra, sulla mediocrità umana, sulle differenze sociali, sull’indifferenza dell’italiano mediocre e ignorante a tutto ciò che non lo riguardi direttamente:

…scambiare qualche chiacchiera sul caldo, sull’andazzo delle cose nell’universo della ristorazione, sugli avvenimenti sportivi, sulla Crisi del Golfo.
“Roland, credi che scoppierà la guerra?”
“Che ne so, Marco. Scoppierà , non scoppierà… Noi siamo lontani, non può succederci niente”.
La guerra non ci tange, quindi possiamo comportarci da persone di mondo, sorseggiare la nostra bevanda e ostentare l’impassibilità degli esseri superiori. Ma se non altro dovremmo ammettere di aver avuto fortuna: il potersi rivestire di civismo, di maniere squisite, è, infatti, il più esorbitante dei lussi… Ma con Roland non si poteva parlare di queste cose… (pp. 121-122).

I vizi dei Canachi, esattamente come le loro virtù, le loro manie ossessive, sono descritte dal protagonista-osservatore con la consapevolezza di essere un isolato. Mai banali, i personaggi sfilano davanti agli occhi del lettore, cuochi bislacchi, irresponsabili, addirittura porci pedofili afflitti da eterna misoginia, ladri, imbroglioni, etc.
Niente nel romanzo è prolisso, tutto è sapientemente dosato. Sullo sfondo gli ambienti, dai ristoranti alle città, dalle misere stanzette dei poveri, alla natura che rimanda ai paesaggi infernali di Bosch, luoghi pieni di invisibili presenze come nei più riusciti romanzi deleddiani:

Noi tutti, uomini e bestie, coesistiamo tutt’altro che in armonia. Formiamo un bailamme vomico, un arcigno sovrapporsi di denti e artigli, come in un palinsesto in cui prevale il colore del sangue. Il carnaio si accalca con foga verso il punto centrale del dipinto, ridicolizzando l’originaria intenzione del Maestro di infondere alla rappresentazione un senso di ordine, bellezza e proporzioni. Dalle bocche spalancate di bipedi, tripedi e quadrupedi esplode un selvaggio urlo corale (p. 118).

Il libro non ha altresì esigenze commisurate all’ipocrita e perbenista politicamente corretto, tant’è che usa la parola “negro” invece di “nero” ma non perché sia un testo razzista, semplicemente perché segue un certo criterio di verosimiglianza: come pensate che gli italiani chiamassero i neri negli anni 80-90, anni in cui è ambientata la storia? Come pensate che trattassero le donne? Come pensate che si rapportassero con la grande storia?

La letteratura dice le cose come stanno. E il romanzo lo trovate su Amazon

Per farvela breve, è uno dei più bei romanzi letti negli ultimi mesi e che potrebbe fare le scarpe a molti autori considerati “laureati”.

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Libri Mary Blindflowers

DESTRUTTURALISMO Punti salienti

 

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