Aldebaran, aurora, stella luminosa

Aldebaran, aurora, stella luminosa

Aldebaran, aurora, stella luminosa

Aldebaran, aurora, stella luminosa

Meditazione, credit Mary Blindflowers©

 

Angelo Giubileo©

Aldebaran, aurora, stella luminosa

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Aldebaran è la stella più luminosa dell’aurora. La qual cosa rievoca il fenomeno dell’aurora boreale nei territori artici; dimora delle popolazioni storiche e originarie del nord, costrette poi a emigrare verso sud dopo l’ultima glaciazione (circa 10.000-8.000 e.a.)
Aldebaran è la figlia di Prajapati, di cui il dio stesso, “sovrano di tutte le cose”, si è perdutamente invaghito. A tal punto che, dice Tilak, la insegue nei cieli vedici (6.500 – 4.500 e.a.), che seguono la dimora artica e precedono la dimora egizia e sumero-mesopotamica, che contrassegnerà l’inizio teorico dell'”Occidente”.
La comunità degli dei, per punire il pensiero incestuoso di Prajapati, incarica, tra sé, l’arciere Rudra (Sirio), che completa la vendetta degli dei colpendo alla testa Prajapati, che appare nel cielo in forma di antilope. La freccia, scagliata dall’arco stellare della costellazione di Ka-ksidi, colpisce esattamente la testa-dimora di ciò che prenderà il nome di cintura di Orione. Rudra-Sirio è accompagnato dal Cane-maggiore, vertice della suddetta costellazione. Si dice anche che sia stato lo stesso Cane a impadronirsi della preda. Nel cielo di allora, veniva quindi raccontata questa storia dell’inizio raffigurata da un tratto di freccia lineare che, scoccata dall’arco suddetto, attraverso l’opera del cacciatore supportato dal proprio cane, colpiva la preda-Prajapati-Ka(Chi?). A sua volta posto all’inseguimento dell’aurora celeste, preda finale e simbolo d’immortalità. Si dice anche che Prajapati si sia piuttosto suicidato, giunto al termine del suo cammino. E anche noi lo crediamo, prestando fede a Tilak, secondo cui Rudra è l’Anno-nuovo che insegue l’Anno-vecchio. Nulla di più, attraverso i cicli originari del tempo: notte/giorno, le stagioni, l’anno. Altro particolare del Mito merita maggiore attenzione: dal taglio della testa dell’antilope-cervo nasce il nuovo mito del Cacciatore celeste-Orione, dio dell’Occidente, così come tramandato a tutt’oggi nel racconto delle diverse e attuali tradizioni religiose, parsi e greche (Tilak). Occorsero secoli perché quel taglio naturale, che figurava il passaggio dall’anno vecchio all’anno nuovo, passato presente e futuro, divenisse materia di analisi per i teologi delle diverse religioni. Vittime di se stessi.
In attesa dell’esecuzione – che in tal caso non avvenne secondo il metodo tradizionale del taglio della testa che gli stoici avevano appreso dai matsoni vedici -, Socrate rivolgendosi al suo amico pitagorico Simmia, dice nel Fedone di Platone che non ha senso sostenere che le cose siano esattamente come egli stesso le ha appena raccontate ma giova a lui operare siffatti inganni o magie. Un giorno remoto, il rito o culto quotidiano più antico praticato dall’uomo sfociò nel racconto. Ma un giorno ancor più remoto quello stesso rito era stato soltanto il memoriale dell’eterno sacrificio di nascere, vivere e morire. Questo voleva altresì significare che in un giorno ancor più remoto, remotissimo, la condizione di ogni vivente aveva diversamente partecipato, caro il mio pitagorico, a un’unione naturale, scevra di costruzioni mentali teoriche e separatiste. Il passaggio dal rito al racconto era comunque avvenuto ad opera di quel Sé, che si muta anche in forma di Io, che invece all’inizio aveva condiviso e accettato le grand don de ne rien comprendre à notre sort. Dato che alla nostra sorte manca sempre un residuo. Un residuo che impedisce l’accesso a ciò che i moderni – confusamente e dalla teoria delle idee di Platone in poi – chiamano “libertà”. E allora il dono originario è divenuto prima rito e poi il racconto di una parola che, secondo molti, avrebbe dovuto già adempiere la promessa di farci diventare Dio. Quella promessa si è arrestata davanti ai cancelli di Auschwitz, ma la sua eco non è affatto morta. E allora di via (restò e) resta soltanto una parola che: “è”.
Ma purtroppo l’elevatissimo e insuperabile valore di questa sintesi, rappresentata da un termine, “è” – che non ha alcun valore di predicato sia nominale che verbale, ma sostanzia ciò che in qualche modo appare ai sensi dell’uomo -, purtroppo ripetiamo questa sintesi espressa dal filosofo Parmenide (e non solo, riflesso di un’antichità in esilio) non è, ancora oggi, compresa come viceversa dovrebbe essere. Si dice che il filosofo sia stato allievo di Pitagora, il quale trasferì nel 532 e.a. la sede della sua scuola filosofica sulle terre del lido odierno di Metaponto. A poco più di 100 chilometri a sud dell’attuale Ascea, allora Elea-Velia patria di Parmenide e dell’eleatismo. Succede sovente che l’allievo superi il maestro, tanto più se il maestro abbia costruito un sistema, che possiamo dire “incompleto”, ed è proprio il termine che userà – 2400 anni dopo Pitagora e Parmenide – il matematico austriaco Kurt Godel. Il pitagorismo è infatti un sistema della mente, che prescinde dalla corporeità dei sensi dell’uomo. La mente opera tra due termini estremi, come a esempio 0 e 1, e pur sempre mediante una relazione assolutamente indecidibile. Unica eccezione: i numeri immaginari. Così che, nello spazio di tipo matematico o mentale, Achille non potrà mai raggiungere la tartaruga. Diversamente da ciò che accade nello spazio geometrico, che cade anche e prioritariamente sotto l’osservazione dei sensi. Già Plutarco, nell’adversus Colotem, è chiaro ed efficacissimo su questo che è il nodo gordiano dell’essere, per eccellenza. Infatti, il sacerdote di Delfi dice che Parmenide non abbia affatto inteso ignorare l’ordine sensibile facendo leva esclusivamente sull’ordine intellegibile. Parmenide, nella sua sintesi validissima ed efficacissima, li mantiene entrambi così che il suo sistema può dirsi “completo”.
Nell’attualità – rispetto ai sistemi teologico-politici del passato e del presente orientati alla costruzione di un mondo -, s’avanza l’ipotesi della costruzione di un mondo virtuale, mentale e matematico. La radice ma/me presiede alla costruzione di termini quale madre, materia, matematica, mente, misura, uomo, etc.: homo mensura rerum (Pitagora). Ma l’uomo a una dimensione, intellegibile, è evidente-mente un uomo incompleto. E allora, le religioni hanno finora parlato di una completezza da raggiungere in un presunto al-di-là. Diversamente dall’utopia transumanista, che parla di un futuribile al-di-qua in cui l’uomo diventi in fine Dio. E comunque, finché restiamo umani, sarebbe forse un bene che tutti apprendessimo la lezione della storia e di Parmenide. Buona vita a tutti!

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