Le Terapie di Shock

Le Terapie di Shock

Le Terapie di Shock

Di Mary Blindflowers©

Le Terapie di Shock

Le Terapie di Shock, credit Mary Blindflowers©

 

Col termine generico di “nevrastenia” nell’Ottocento e nei primi del Novecento, si intendevano disturbi nervosi di varia natura, dall’ansia, ai problemi gastro-intestinali, nervosismo, insonnia, stress, depressione, etc.

La Galvanizzazione spinale o faradizzazione dei muscoli era l’applicazione di corrente elettrica a scopi terapeutici.

Riferiva a tal proposito il Bullettino delle Scienze Mediche alla voce “Galvanismo”, di “alcune ricerche fatte… sullo stato della contrattilità e della sensibilità elettro-muscolare nelle paralisi dell’arto superiore”1.

Seguendo la scia di Luigi Aloisio Galvani, il nipote Aldini, proseguì la ricerca sull’elettroterapia, esibendosi anche in sperimentali spettacoli macabri. Collegava elettrodi a pile ad alto voltaggio a teste di cadaveri mozzate, ottenendo il movimento dei muscoli facciali e l’apertura degli occhi mentre nei corpi faceva muovere gli arti con l’elettricità. Aldini si esibiva in queste performances sulla pubblica via, generalmente dietro i tribunali. Grazie ai suoi studi si elaborarono apparecchi per l’elettroterapia e elettroshock usati per la cura di pazienti folli o con problemi psichici. Anche nel famoso romanzo di Mary Shelley, Frankenstein, “la cosa”, prende vita in seguito all’elettrificazione, a dimostrazione della grande notorietà degli esperimenti elettrici: “avevo già studiato le leggi dell’elettricità che mi erano alquanto familiari… era con noi un signore che aveva condotto ricerche approfondite nell’ambito della filosofia naturale… incominciò a spiegarci una teoria da lui personalmente elaborata sull’elettricità e sul galvanismo”2.

L’ideatore della terapia elettroconvulsivante ossia della macchina per il famigerato elettroshock, fu Ugo Cerletti, neurologo e psichiatra italiano di fede fascista, era convinto che l’elettroshock fosse un passo avanti per il “miglioramento dell’umanità”. In realtà si trattava di una terapia che completava metodi coercitivi sul paziente, dal ricovero forzato, alla violenza istituzionalizzata, all’esperimento di pazienti trattati come cavie.

Dall’osservazione della corrente applicata sui maiali destinati al macello, Cerletti traeva le sue conclusioni:

Vanni mi informò del fatto che al macello di Roma i maiali venivano ammazzati con la corrente elettrica. Questa informazione sembrava confermare i miei dubbi sulla pericolosità dell’applicazione di elettricità all’uomo. Mi recai al macello per osservare questa cosiddetta macellazione elettrica, e notai che ai maiali venivano applicate alle tempie delle tenaglie metalliche collegate alla corrente elettrica (125 volt). Non appena queste tenaglie venivano applicate, i maiali perdevano conoscenza, si irrigidivano, e poi, dopo qualche secondo, erano presi da convulsioni, proprio come i cani che noi usavamo per i nostri esperimenti. Durante il periodo di perdita della conoscenza (coma epilettico), il macellaio accoltellava e dissanguava gli animali senza difficoltà. Non era vero, pertanto che gli animali venissero ammazzati dalla corrente elettrica, che veniva invece usata, secondo il suggerimento della Società per la prevenzione del trattamento crudele agli animali, per poter uccidere i maiali senza farli soffrire. Mi sembrò che i maiali del macello potessero fornire del materiale di grandissimo valore per i miei esperimenti. E mi venne inoltre l’idea di invertire la precedente procedura sperimentale: mentre negli esperimenti sui cani avevo tentato di utilizzare sempre la minima quantità di corrente, sufficiente a procurare un attacco senza causar danno all’animale, decisi ora di stabilire la sua durata temporale, il voltaggio ed il metodo di applicazione necessari a provocare la morte dell’animale. L’applicazione di corrente elettrica sarebbe stata dunque fatta attraverso il cranio, in diverse direzioni, e attraverso il tronco, per parecchi minuti. La prima osservazione che feci fu che gli animali raramente morivano, e questo solo quando la durata del flusso di corrente elettrica passava per il corpo e non per la testa. Gli animali ai quali veniva applicato il trattamento più severo rimanevano rigidi mentre durava il flusso di corrente elettrica, poi, dopo un violento attacco di convulsioni, restavano fermi su un fianco per un poco, alcune volte parecchi minuti, e finalmente tentavano di rialzarsi. Dopo molti tentativi di recuperare le forze, riuscivano finalmente a reggersi in piedi e fare qualche passo esitante, finché erano in grado di scappar via. Queste osservazioni mi fornirono prove convincenti del fatto che una applicazione di corrente a 125 volt della durata di alcuni decimi di secondo sulla testa, sufficiente a causare un attacco convulsivo completo, non arrecava alcun danno3.

Durante la terapia di ECT spesso ai pazienti si provocavano oltre che problemi di memoria, anche lussazioni e fratture dell’omero. La macchina di Ugo Cerletti aveva 125 Volts.

Ma non si pensi che questo tipo di terapia sia un retaggio del passato.

Le terapie di Shock di Edoardo Balduzzi, Feltrinelli Editore, prima edizione marzo 1962. Ci si chiede che senso abbia leggere un libro che affronta argomenti di medicina e pubblicato negli anni 60. In realtà il testo affronta un tema non del tutto risolto neppure oggi, l’uso dell’elettroshock, terapia che divide ancora il mondo medico in favorevoli e contrari.

Balduzzi difende addirittura quella che secondo lui sarebbe una definizione impropria della terapia, con “difetti di significato”:

Il termine shock ha acquistato un saldo diritto di asilo nel capitolo della terapia psichiatrica malgrado sostanziali difetti di significato: non sembrerebbe infatti ammissibile che una denominazione che in patologia generale viene impiegata genericamente per indicare “insufficienza” o “collasso” delle funzioni vitali sia potuta e possa tuttora venire impiegata in un’altra branca della medicina per significare (Di Giacomo) “delle brusche e violente modificazioni dell’omeostasi con sospensione più o meno brusca e graduale della coscienza e intense modificazioni vegetativo-somatiche”; modificazioni, provocate unicamente a scopo terapeutico. Comunque sia, nel nostro ordine di interessi, il termine shock, così come si era abituati a intenderlo, rivela la sua improprietà soprattutto per due fondamentali ragioni: sia perché delle reazioni organiche artificalmente indotte esso indica solo la fase deficitaria preliminare e non le sequenze reattive di questa, che euristicamente, potremmo definire positive, benefiche”.

Secondo alcuni medici infatti lo shock riattiverebbe i neurotrasmettitori, e in particolare la noradrenalina. Insomma una sola seduta di elettroshock sarebbe come assumere una dose elevatissima di antidepressivi, quindi sostituirebbe l’intervento farmacologico che, in dosi equivalenti, sarebbe tossico se non mortale. Secondo altri, come J. Read e R. Bentall, l’elettroshock non fa altro che cuocere il cervello, tanto per dirla volgarmente, infatti provoca amnesie in forme più o meno gravi sia retrograde che anterograde, e stato confusionale con possibili danni cerebrali permanenti. Inoltre la terapia avrebbe un effetto placebo solo durante il periodo delle sedute, ma nessuna efficacia scientificamente evidente oltre il periodo di trattamento.

L’elettroshock viene usato per il trattamento della depressione, dei disturbi schizoaffettivi, schizofrenici e bipolari, per le forme maniacali miste che non rispondono alle terapie, e nei pazienti a forte rischio di suicidio.

Sull’utilità di tale pratica tuttavia la comunità scientifica ha molte riserve. Molti ritengono l’elettroshock il fallimento della psichiatria.

Il saggio di Balduzzi, nonostante l’esposizione non letteraria, leggermente soporifera, rimane comunque un excursus storicamente interessante che aiuta a capire come la medicina sia ben lontana dall’essere una scienza esatta.

1 AA.VV., Bullettino delle Scienze Mediche pubblicato per cura della Società Medico-chirurgica di Bologna e compilato dai soci, Anno XXII, Ser. III, Vol. XVII, Gennaio 1850, pubblicato il 18 Febbraio 1850, Bologna Tip. Gov. Alla Volpe, pp. 58, 59.

2 Mary Shelley, Frankenstein, traduzione di Nicoletta Della Casa Porta, Giunti, Firenze, 2007, p. 56.

3 Si veda a tal proposito Thomas S. Szasz, La psichiatria a chi giova?, in Crimini di Pace. Ricerche sugli intellettuali e sui tecnici come addetti, a cura di Franco Basaglia e Franca Ongaro Basaglia, Einaudi, Torino 1975.

https://antichecuriosita.co.uk/manifesto-destrutturalista-contro-comune-buonsenso/

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