Orazio, Virgilio, armonicamente, simmetricamente

Orazio, Virgilio, armonicamente, simmetricamente

Orazio, Virgilio, armonicamente, simmetricamente

 

Libri antichi, credit Mary Blindflowers©

 

Di Mariano Grossi©

Orazio, Virgilio, armonicamente, simmetricamente

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CARMEN SAECULARE

Phoebe silvarumque potens Diana,

INTERVALLO  7

Alme Sol, curru nitido diem qui

promis et celas aliusque et idem

nasceris, possis nihil urbe Roma

visere maius!

Rite maturos aperire partus

lenis, Ilithyia, tuere matres,

sive tu Lucina probas vocari

seu Genitalis.

Diva, producas subolem patrumque

INTERVALLO  7

Vosque veraces cecinisse, Parcae,

quod semel dictum est, stabilisque rerum

terminus servet, bona iam peractis

iungite fata.

Fertilis frugum pecorisque Tellus

spicea donet Cererem corona;

nutriant fetus et aquae salubres

et Iovis aurae.

Condito mitis placidusque telo

supplices audi pueros, Apollo;

siderum regina bicornis, audi,

Luna, puellas.

Roma si vestrum est opus Iliaeque

litus Etruscum tenuere turmae,

iussa pars mutare Lares et urbem

sospite cursu,

cui per ardentem sine fraude Troiam

castus Aeneas patriae superstes

liberum munivit iter, daturus

plura relictis :

di, probos mores docili iuventae,

di, senectuti placidae quietem,

Romulae genti date remque prolemque

et decus omne.

Quaeque vos bobus veneratur albis

clarus Anchisae Venerisque sanguis,

impetret, bellante prior, iacentem

lenis in hostem.

Iam mari terraque manus potentes

Medus Albanasque timet secures,

iam Scythae responsa petunt, superbi

nuper et Indi.

Iam Fides et Pax et Honos Pudorque

priscus et neglecta redire Virtus

audet, apparetque beata pleno

Copia cornu.

Augur et fulgente decorus arcu

Phoebus acceptusque novem Camenis, 

INTERVALLO  7


quindecim 
Diana preces virorum

curat et votis puerorum amicas

adplicat aures.

Haec Iovem sentire deosque cunctos

spem bonam certamque domum reporto,

doctus et Phoebi chorus et Dianae

dicere laudes.

TRADUZIONE

Febo e delle selve potente Diana,

Ornamenti del cielo, sempre degni

Di culto, concedete al nostro inno

Il tempo sacro,

In cui fissò la Sibilla che un coro

Di vergini elette e di casti fanciulli

Agli dei, fedeli dei sette colli,

Il canto innalzasse.

Vivido sole, che in carro lucente

Porti e nascondi il giorno, e sempre uguale

E sempre nuovo sorgi, mai più grande

Nulla ti appaia di Roma!

Tu che benigna schiudi i parti maturi

Con man lieve assisti, o Ilizia (1), le madri,

Sia che Lucina voglia tu esser chiamata

Sia Genitale.

ODea, fai crescer la progenie e dei Padri

I decreti asseconda, che propiziano

I matrimoni delle donne e nuova prole

Con legge maritale (2),

Affinché il volgere di undici decenni (3)

Del ciclo fissato conduca ancora il canto e feste

Per tre giorni lucenti ed altrettante

Gioconde notti.

E voi Parche, veraci nel predire,

A ciò già stabilito e al saldo fine

Prescritto (4), con più gloria accrescete

Destini già compiuti.

Più fertile sia il suolo e greggi e spighe

Di cui si doni a Cerere corona;

Frequenti sian le pioggie e aure salubri

Che spirano di Giove (5).

Deposte frecce e pestilenze, ascolta

Questi fanciulli supplici, o Apollo (6);

E tu regina degli astri, ascolta,

O Luna (7), le fanciulle.

Se opera vostra è Roma, se le iliache

Squadre raggiunsero il lido etrusco,

Parte ordinata a mutare Lari e città

Con viaggio favorevole,

E a cui, traversando illesi Troia in fiamme,

Il pio Enea, superstite della patria,

Munì un libero passaggio, lui designato a dare

Più del perduto :

O dei, costumi casti a una tranquilla gioventù,

O dei, la quiete a una serena vecchiaia,

Alle Romulee genti potenza e prole date,

Ogni onore e gloria.

E ciò che col sacrificio di candidi buoi

Il chiaro sangue (8) di Anchise e Venere

Da voi impetra: vincitor su chi fa guerra, clemente

Col nemico abbattuto.

Già per mare e per terra il braccio potente

Teme il Persiano ed i fasci di Alba,

Già ambascerie inviano gli Sciti, e gli Indi (9)

Fino ad ora superbi.

Già Fede e Pace, Onore e Pudore

Antichi e la Virtù a lungo negletta

Osano tornare (10); felice riappare con ricolma

Cornucopia l’Abbondanza.

Degli àuguri e dell’arco insigne dio,

Tu Febo, caro alle nove Camène

E che con l’arte medica ristori

Ogni corpo malato,

Dal Palatino propizio osservando

La potenza romana e il lieto Lazio

Possa tu sempre in meglio, per lustri

E in nuovi evi accrescere.

E anche Diana, che ha sull’Aventino

E su Còmpatri i templi, esaudisca

Quindicemvire (11) preci e porga orecchie

Ai voti dei fanciulli.

Questo da Giove e da tutti gli dei

Condiviso voler con fede io porto –

Coro innocente fatto edotto a dire

Di Apollo e Diana le lodi.

Ode sacrale e progettuale che potrebbe essere considerata il pendant oraziano dell’Ecloga IV di Virgilio nel suo solenne annuncio dell’Aetas aurea e della grandezza di Roma sotto il principato augusteo. La ricerca della sacralità è sinonimo di armonia e anelito di perfezione cosmica; non c’è dunque da meravigliarsi se oltre ai criteri contenutistici i due cantori del Princeps bonus abbiano adottato analoghi procedimenti formali e strutturali in queste due opere talmente programmatiche. Riportiamo nuovamente una breve sintesi del pensiero di Capparelli già espresso in sede di commento alla composizione dell’Ecloga IV su questo stesso sito. Nel meraviglioso libro di Vincenzo Capparelli -“Il messaggio di Pitagora – Il pitagorismo nel tempo” Vol. 2°, si evidenzia come i pitagorici conoscevano perfettamente i concetti di media aritmetica e di media armonica. Le ricerche di acustica da una parte e quelle geometriche d’altra parte li portarono a scoprire procedimenti di calcolo per valori approssimati con una triplice via: aritmetica, geometrica, acustica. E per via acustica scoprirono la divisione armonica, procedimento adottato poi da Archita. La proporzione armonica era chiamata da loro subcontraria (hypenantìa). La loro nozione di media aritmetica, armonica e geometrica formava per gli stessi scienziati immagine delle tre principali forme di governo: l’aritmetica rappresentava il governo oligarchico, l’armonica quello degli ottimati, la geometrica, con la sua perenne eguaglianza, dava immagine del governo popolare. Ma quella che più esercitò la riflessione dei pitagorici fu senza dubbio l’armonica, che appariva loro come più misteriosa e rispondente alla struttura del mondo, di per sé immagine dell’ordine e dell’armonia. Non pare dunque fuori luogo immaginare una ricerca di tale corrispondenza speculare nelle due opere in cui Virgilio e Orazio (Ecloga IV Carmen Saeculare) propagandavano proprio tale immagine di ordine e armonia universale rappresentato dal dominio di Roma sul mondo fisicizzato dall’avvento del principato augusteo.

Vedremo in corso di trattazione come il Carmen Saeculare contenga altre analogie e spie pitagoriche endostrutturali con l’Ecloga IV.

La prima parte dell’ode si estende dal verso 1 al verso 32 e per il contenuto altamente invocativo ai numi patrii può considerarsi una sezione autonoma, caratterizzata com’è da una serie di Vocativi ed esortativi per le divinità sopraccitate:

–           Verso 1: Febo e Diana;

–           Verso 9:  il Sole;

–           Versi 14, 15, 16 e 17: Ilitia ovvero Lucina ovvero Genitalis, ovvero Diva;

–           Verso 25: le Parche;

–           Verso 29, 30 e 31: Tellus, Cerere, Iupiter.

Tra l’invocazione d’ingresso alle due divinità palatine (Apollo e Diana), entrambe estremamente luciferine e solari e quella, ricapitolativa di entrambe, al Sole generatore e fecondo, in pendant speculare con la funzione dei due bucinatores della luce, c’è un intervallo di 7 versi.

Altrettale intervallo vige tra il verso 17, ultima invocazione alla dea delle partorienti (Ilitia, poi detta Lucina, poi Genitalis e infine omnicomprensivamente apostrofata come Diva) e il verso 25 dove sono invocate le Parche, le filatrici del fato di Roma.

Orbene, il numero 7 è altamente simbolico e pitagorico nella sua valenza profetica come peraltro si rileva  anche nella simmetria compositiva della IV Ecloga di Virgilio, strutturata pitagoricamente su questa sequenza di linee: 3 + 14 + 28 + 14 + 4, (cfr. Geymonat alla nota 1 della sua edizione Garzanti  del 1981).

La prima parte del carme si chiude con analoga martellante ripetizione degli appellativi dei numi (Tellus, Cereres, Iupiter) per dar spazio alla seconda parte, la sezione maggiore, decisamente meno supplice-invocativa e più storico-celebrativa.

A partire, infatti, dal verso 33 le apostrofi ai Celesti si decolorano assumendo un ritmo meno incalzante e soprattutto si circoscrivono ad Apollo e Diana, divinità gemelle, per la prima volta programmaticamente nominati e identificati con un’onomastica più indigena, in parallelo con il contenuto celebrativo-sciovinistico della sezione: l’uno Apollo, l’altra Luna. Questo nuovo tipo di apostrofe costituisce notabile svolta stilistica e cesura alla sezione minore dell’opera.

L’invocazione ad Apollo, perché deponga i dardi pestilenziali, e alla Luna, perché ascolti le preghiere delle fanciulle future puerpere della vis Romana, apre un nuovo capitolo del carme oraziano, un quadro che vira sulla storia di Roma e ne riavvolge il nastro partendo dalle origini troiane, zoccolo duro della propaganda augustea, con visione panoramica della vicenda di Enea, capostipite castus et pius verso i vinti in concetto pervicacemente integrista e promozionale del ruolo di Roma pacificatrice dell’orbe in studiata contrapposizione con la ferocia dei Parti, degli Sciti e degli Indi.

Fulcro della ricapitolazione del mondo ad opera di Roma saranno il recupero dei valori antichi su cui si fondarono gli ideali repubblicani: fides, pax, honor, pudor, virtus col ritorno delle arti patrocinate da Febo e dalle sue Muse cui si unisce Diana, sensibile ai voti augurali dei fanciulli.

Sintomaticamente le divinità palatine in questa sezione maggiore, dopo i due Vocativi con cui vengono sigillantemente chiamati una tantum Apollo e Luna, non verranno più invocate, ma “narrate” usando il Nominativo (Phoebus al verso 62, Diana al verso70) con una distanza che reitera il pitagoricissimo 7 già evidenziato nella sezione minore.

Ma se l’ode è strutturata specularmente all’ecloga virgiliana col rapporto armonico, è altresì vero, seguendo i criteri indicati da Carlo Ferdinando Russo ne “L’ambiguo grembo dell’Iliade”, Belfagor, 1978 e in “Fisionomia di un manoscritto arcaico (e di un’Iliade ciclica)”, Belfagor, 1979, che essa è altresì fruibile simmetricamente qualora i 4 versi finali con l’invocazione a Giove vengano inglobati nei 32 iniziali invocativi di Apollo e Diana e delle altre divinità. Avremmo così 36 versi invocativi e 40 storico celebrativi.

Diceva C.F. Russo che ad ogni canto Omero dà una misura regolata dal “fren dell’arte”, ammiccando ad un progetto compositivo fatto a monte; ma non c’è bisogno di giungere a Dante per intuire questo telaio poietico preventivo alla stesura, perché proprio Virgilio nelle Georgiche reitera più volte il concetto degli spazi a disposizione; come facilmente visibile nel passo del libro IV relativo a Coricio:

Atque equidem, extremo ni iam sub fine laborum                  116

vela traham et terris festinem advertere proram,

forsitan et, pingues hortos quae cura colendi

ornaret, canerem, biferique rosaria Paesti,

quoque modo potis gauderent intiba rivis

et virides apio ripae, tortusque per herbam

cresceret in ventrem cucumis; nec sera comantem

narcissum aut flexi tacuissem vimen acanthi

allentesque hederas et amantes litora myrtos.

Namque sub Oebaliae memini me turribus arcis,          125

qua niger umectat flaventia culta Galaesus,

Corycium vidisse senem, cui pauca relicti

iugera ruris erant, nec fertilis illa iuvencis

nec pecori opportuna seges nec commoda Baccho.

Hic rarum tamen in dumis holus albaque circum

lilia verbenasque premens vescumquepapaver

regum equabat opes animis seaque revertens

nocte domum dapibus mensas onerabat inemptis.

Primus vcererosamatque autumno carpere poma

et, cum tristis hiemps etiamnum frigore saxa

rumperet et glaciecusus frenaret aquarum,

ille comam mollis iam tondebat hyacinthi

aestatem increpitans seram Zephyrosque morantis.

Ergo apibus fetisidem atque examine multo

primus abundare et spumantia cogere pressis

mella favis; illi tiliae atque uberrima pinus,

quotque in flore novo pomis se fertilis arbos

induerat, totidem autumno matura tenebat.

Ille etiam seras in versum distulit ulmos

eduramque pirum et spinos iam pruna ferentis

iamque ministrantem platanum potantibus umbras.

Verum haec ipse  equidem spatiis  exclusus iniquis

praetereo atque aliis post me memoranda relinquo.               148

Si tratta dunque di un modulo di 33 esametri divisi  in due quadri uno di 9 linee introduttive alla praeteritio e 24 narrativi della esperienza di Coricio, con una clausola compositiva programmatica sicuramente seguita da Dante nel Purgatorio al termine della seconda cantica:

S’io avessi, lettor, più lungo spazio

da scrivere, i’ pur cantere’ in parte 

lo dolce ver che mai non m’avrìa sazio;

ma perché piene son tutte le carte

ordite a questa cantica seconda,

non mi lascia più ir lo fren de l’arte.

Il passo dedicato a Coricio veniva così commentato da Otis Brooks e Ward W. Briggs Jr in “Virgil, a Study in civilized Poetry”, University of Oklahoma Press, Norman and London, 1995: ”Virgil has deliberately framed this “digression” as a self-avowed praeteritio: an “I would tell, had I but time” followed by the tale itself. He begins (116):

Atque equidem, extremo ni iam sub fine laborum,

vela traham et terris festinem advertere proram

And closes(147) :

Verum haec ipse equidem spatiis exclusus iniquis

praetereo atque aliis post me memoranda relinquo.

The new lines strike the new vote:

Nunc age, naturas apibus quas Iuppiter ipse

addidit, expediam, pro qua mercede canoros

We now turn from the bee-keeper to the bee.”

Come può notarsi I due studiosi americani usano un termine come il verbo to frame che richiama il lessico di C.F. Russo (quadro) e pongono attenzione estrema alle svolte stilistico-programmatiche del poeta augusteo.

Spie linguistiche, cambi tematici, cesure annunciate in exordio e in clausula sono dunque sempre supportate, vidimandola, dalla struttura compositiva che segue principi proporzionali matematici rigorosi e pur sempre duttili nel loro dipanarsi.

BIBLIOGRAFIA

Carlo Ferdinando Russo:

–          “Notizia della composizione modulare”, Belfagor, XXVI, 1971, pp. 493-501;

–          “Primizie di poetica matematica”, Belfagor, XXVIII, 1973, pp. 635-640;

–          “Iliade. Matematica e libri d’autore”, Belfagor, XXX, 1975, pp. 497-504;

–          “L’ambiguo grembo dell’Iliade”, Belfagor, XXXIII, 1978, pp. 253-266;

–          “Fisionomia di un manoscritto arcaico (e di un’Iliade ciclica)”, Belfagor,XXXIV 1979, pp.653-656

Franco De Martino:

–          “Omero fra narrazione e mimesi”, Belfagor, XXXII,1977, pp. 1-6;

–          “Chi colpirà l’irrequieta colomba…”, Belfagor, 1977, pp. 207-210

Mario Geymonat“Virgilio – Bucoliche”, Garzanti, 1981

Mario Ramous, “Quinto Orazio Flacco – Le opere”,Garzanti 1988

Otis Brooks – Ward W. Briggs Jr, Virgil, a Study in civilized Poetry”,  University of Oklahoma Press Norman and London,1995

Giorgio Dillon – Riccardo Musenich, “I numeri della Musica – Il rapporto tra Musica, Matematica e Fisica da Pitagora ai tempi moderni

Vincenzo Capparelli – “Il messaggio di Pitagora – Il pitagorismo nel tempo” Vol. 2°, Edizioni Mediterranee, 2003

–          “La composizione matematica del secondo canto dell’Iliade”, Bari, 1978, Università degli Studi – Facoltà di  Lettere e Filosofia;

–          “Ecloga VIII, Art Litteram, 14.07.2009;

–          “La composizione matematica della IV Egloga di Virgilio”, Art Litteram, 15.05.2015;

–          “L’architettura modulare e proporzionale dell’Ecloga III di Virgilio”, Art Litteram, 14.06.2015;

–          “Omero e Virgilio epicamente e bucolicamente modulo-proporzionali”, Art Litteram, 07.06.2015.  

 

 

 

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