Classici, liquida vibrante, nasale

Classici, liquida vibrante, nasale

Classici, liquida vibrante, nasale

 

In pelago pescoso, credit Mary Blindflowers©

 

 

Di Mariano Grossi©

 

Omero, Iliade, XVI, passo della morte di Cebrione, auriga di Ettore, per mano di Patroclo (vv.726 -750):

Ὣς εἰπὼν ὃ μὲν αὖτις ἔβη θεὸς ἂμ πόνον ἀνδρῶν,
Κεβριόνῃ δ’ ἐκέλευσε δαΐφρονι φαίδιμος Ἕκτωρ
ἵππους ἐς πόλεμον πεπληγέμεν. αὐτὰρ Ἀπόλλων
δύσεθ’ ὅμιλον ἰών, ἐν δὲ κλόνον Ἀργείοισιν
ἧκε κακόν, Τρωσὶν δὲ καὶ Ἕκτορι κῦδος ὄπαζεν.
Ἕκτωρ δ’ ἄλλους μὲν Δαναοὺς ἔα οὐδ’ ἐνάριζεν·
αὐτὰρ ὃ Πατρόκλῳ ἔφεπε κρατερώνυχας ἵππους.
Πάτροκλος δ’ ἑτέρωθεν ἀφ’ ἵππων ἆλτο χαμᾶζε
σκαιῇ ἔγχος ἔχων· ἑτέρηφι δὲ λάζετο πέτρον
μάρμαρον ὀκριόεντα τόν οἱ περὶ χεὶρ ἐκάλυψεν,
ἧκε δ’ ἐρεισάμενος, οὐδὲ δὴν χάζετο φωτός,
οὐδ’ ἁλίωσε βέλος, βάλε δ’ Ἕκτορος ἡνιοχῆα
Κεβριόνην νόθον υἱὸν ἀγακλῆος Πριάμοιο
ἵππων ἡνί’ ἔχοντα μετώπιον ὀξέϊ λᾶϊ.
ἀμφοτέρας δ’ ὀφρῦς σύνελεν λίθος, οὐδέ οἱ ἔσχεν        

ὀστέον, ὀφθαλμοὶ δὲ χαμαὶ πέσον ἐν κονίῃσιν
αὐτοῦ πρόσθε ποδῶν· ὃ δ’ ἄρ’ ἀρνευτῆρι ἐοικὼς
κάππεσ’ ἀπ’ εὐεργέος δίφρου, λίπε δ’ ὀστέα θυμός.
τὸν δ’ ἐπικερτομέων προσέφης Πατρόκλεες ἱππεῦ·
ὢ πόποι ἦ μάλ’ ἐλαφρὸς ἀνήρ, ὡς ῥεῖα κυβιστᾷ.
εἰ δή που καὶ πόντῳ ἐν ἰχθυόεντι γένοιτο,
πολλοὺς ἂν κορέσειεν ἀνὴρ ὅδε τήθεα διφῶν
νηὸς ἀποθρῴσκων, εἰ καὶ δυσπέμφελος εἴη,
ὡς νῦν ἐν πεδίῳ ἐξ ἵππων ῥεῖα κυβιστᾷ.
ἦ ῥα καὶ ἐν Τρώεσσι κυβιστητῆρες ἔασιν.      

Disse; e di nuovo il Dio nel travaglioso
conflitto si confuse. In sé riscosso
Ettore al franco Cebrïon fe’ cenno
di sferzargli i destrieri alla battaglia:
ed Apollo per mezzo ai combattenti
scorrendo occulto seminava intanto
tra gli Achei lo scompiglio e la paura,
e fea vincenti col lor duce i Teucri.
Sdegnoso Ettorre di ferir sul volgo
de’ nemici, spingea solo in Patròclo
i gagliardi cavalli, e ad incontrarlo
diè il Tessalo dal cocchio un salto in terra
coll’asta nella manca, e colla dritta
un macigno afferrò aspro che tutto
empiagli il pugno, e lo scagliò di forza.
Fallì la mira il colpo, ma d’un pelo;
né però vano uscì, ché nella fronte
l’ettòreo auriga Cebrïon percosse,
tutto al governo delle briglie intento,
Cebrïon che nascea del re troiano
valoroso bastardo. Il sasso acuto
l’un ciglio e l’altro sgretolò, né l’osso
sostenerlo poteo. Divelti al piede
gli schizzâr gli occhi nella sabbia, ed esso,
qual suole
il notator, fece cadendo
dal carro un tòmo, e l’agghiacciò la morte.
E tu, Patròclo, con amari accenti
lo schernisti così: Davvero è snello
questo Troiano: ve’ ve’ come
ei tombola
con leggiadria! Se in pelago pescoso
capitasse costui, certo saprebbe
saltando in mar, foss’anche in gran fortuna,
dallo scoglio spiccar conchiglie e ricci
da saziarne molte epe: sì lesto
saltò pur or dal carro a capo in giuso.
Oh
gli eccellenti notator che ha Troia!  

.

Partendo dalla citazione del passo dell’Iliade, parrebbe che né Greci né Latini usassero i radicali  *baph*fud, quelli  cioè di baqÚj e profundus per indicare i primi immersori subacquei, poiché i termini  individuati  sottolineano prima di tutto il  motus sub undas, vale a  dire  i verbi ἀρνεύω e κυβιστάω e la derivazione latina urinator. ἀρνευτήρ diventa in latino urinator ; il verbo base è ἀρνεύω che significa saltello, balzo, salto, m’immergo, mi tuffo ed è attestato in Licofrone nel significato di saltare (Alessandra, 465Profferì una preghiera ben ascoltata facendo saltellare sulle sue braccia la piccioletta aquila”) e sprofondare (Alessandra ,1103 ma sprofonderà sotto il caldo coperchio del tino e col cervello spruzzerà la caldaia”). ἀρνευτήρ è attestato con l’accezione di saltimbanco nel Mimiambo VIII di Eronda al verso 42 e come sommozzatore sia in Omero che in Arato, nei Fenomeni al verso 656.

Κυβιστητῆρες deriva da κυβιστάω il verbo della cubista, di colei che salta e balla a capo fitto, facendo capitomboli e capriole; a indicare la posizione di chi s’incurva per slanciarsi; la radice è appunto quella che si trova nell’aggettivo κυφός che in latino diventa gibbus e in italiano gobbo. In sanscrito kubhanyuh vuol dire appunto “danzante”; Omero usa il verbo più volte per indicare il movimento del salto, con riferimento ai pesci: ἰχθύες κατὰ καλὰ ῥέεθρα κυβίστων, “i pesci saltavano nelle belle correnti” si legge in Iliade XXI, 354; Platone, Convivio, 190 riporta οἱ κυβιστῶντες εἰς ὀρθὸν τὰ σκέλη περιφερόμενοι κυβιστῶσι κύκλω “i saltimbanchi a gambe levate danzano in cerchio”.

Vi è un altro verbo che frequentemente indica in greco antico l’immergersi, ed è δύω, attestato in Omero, Iliade, XVIII 140: Teti sollecita le sorelle marine con queste parole: ὑμεῖς μὲν νῦν δῦτε θαλάσσης εὐρέα κόλπον, “voi immergetevi nel largo seno del mare”. La radice indica comunque omnicomprensivamente l’idea del finire sotto e rendersi invisibili agli occhi altrui, usata com’è anche per il tramonto del sole e per l’idea di morte; questo concetto della sparizione alla vista altrui corrobora nell’idea dell’esperienza subacquea di Scillia, il quale dovette sparire per lungo tempo alla vista dei Persiani immergendosi in acqua, come narra Erodoto nelle Storie al libro VIII capitolo 8, indicandolo come δύτης: “Durante tale operazione Scillia di Scione (era il miglior palombaro di allora), arruolato fra le loro truppe e nel naufragio del Pelio aveva salvato ai Persiani molte ricchezze e di molte si era personalmente appropriato) aveva intenzione, già da tempo, di passare ai Greci, ma non ne aveva avuto mai occasione fino a quel momento. In che modo sia poi giunto fra i Greci non sono in grado di dirlo con certezza; ma sarebbe stupefacente se fosse vero ciò che si racconta e cioè che si sia tuffato in mare ad Afete, per riemergere solo all’Artemisio, dopo aver attraversato sott’acqua qualcosa come ottanta stadi! Su quest’uomo circolano anche vari aneddoti che hanno l’aria di essere falsi e qualche altro che è vero; nel nostro caso mi si consenta l’opinione che sia giunto all’Artemisio su di una barca. Appena arrivato, subito riferì agli strateghi notizie sul naufragio e sul periplo delle navi intorno all’Eubea.”

Altra radice immersiva ritroviamo in Tucidide, 4, 26 laddove si parla di κολυμβηταί, sommozzatori che avrebbero portato aiuto agli Spartani durante l’assedio di Pilo trascinando con sé degli otri sotto la superficie dell’acqua: ”Vi entravano ancora dei palombari in direzione del porto, tirando con una corda degli otri contenenti papavero melato e linseme gramolato; cosa che all’inizio restò nascosta, ma poi furono messe le guardie: insomma s’ingegnavano dopo tutto gli uni di portar viveri, gli altri di scoprirlo.” Il termine si ritrova anche in Platone Protagora 350: “Sai chi sono quelli che con audacia si gettano nei pozzi (εἰς τὰ φρέατα κολυμβῶσιν)?” “Sì, i palombari (οἱ κολυμβηταί) “.”Lo fanno poiché sono capaci o per qualche altro motivo?” “Perché sono capaci”. Mentre Eschilo, Supplici, 408 usa il termine κολυμβητήρ: “Il pensare profondo che è salvezza, l’occhio terso (che il vino non offusca) del palombaro quando s’inabissa (κολυμβητῆρος ἐς βυθὸν μολεῖν) ”. Proprio quest’ultimo termine reperibile in Eschilo, βυθός. l’abisso, ci fornisce un’affinità radicale con l’oggetto primario della nostra ricerca (τὸ βάθος) riferito com’è comunque sempre ad un’idea di fondo presente e omnicomprensivamente misurabile, poiché i tragici lo usano in maniera assoluta per indicare il fondo del mare (στένει βυθός, “geme l’abisso marino” dice Eschilo nel Prometeo, 432).

Ad ogni buon conto tra tutte queste radici, l’unica che pare documentatamente indicare l’idea dell’immersione nel senso dello sparire alla vista è quella del verbo δύω, significativamente usata anche per il tramonto degli astri e della vita umana. Le altre, κυβιστάω, ἀρνεύω, κολυμβάω, paiono radicali che indugiano più sulla cinesi, sul movimento dell’immersore ovvero del tuffatore tout court.

Come già accennato il termine ἀρνευτήρ diventa in latino urinator con l’epentesi della i tra la liquida-vibrante e la nasale. Dell’etimologia del vocabolo parla Varrone (De Lingua latina, V, 7, 126): urinari est mergi in aquam, Varrone spiega che anche le urnae, le brocche per l’acqua, rimontano etimologicamente ad urinari perché vengono riempite immergendole nell’acqua (De Lingua Latina V, 126). Secondo la vulgata infatti acqua era originariamente reso in latino con il termine urina. Secondo un’altra ipotesi invece il nome di urinatores deriverebbe dall’aumento notevole della diuresi da parte dei sommozzatori a seguito dell’esposizione costante allo stress fisiologico dovuto all’apnea, come scientificamente provato dalla scienza medica.

Plinio (Naturalis Historia, II, 234) dice che i sommozzatori usavano dell’olio per migliorare la visibilità: s’immergevano tenendo in bocca una quantità d’olio che poi emettevano, una volta in apnea, per agevolare la visione sott’acqua (omne oleo tranquillari et ob id urinatores ore spargere quoniam mitiget naturam asperam lucemque deportet). A proposito degli animali acquatici più pericolosi per l’uomo sempre nella Naturalis Historia IX, 91 così si esprime a proposito dei polpi: Praeterea negat ullum atrocius esse animal ad conficiendum hominem in aqua. Luctatur enim conplexu et sorbet acetabulis ac numeroso suctu diu trahit, cum in naufragos urinantesve impetum cepit. “Inoltre nega ci sia animale più tremendo per uccidere un uomo in acqua. Infatti, quando ha assalito dei naufraghi o dei subacquei lotta stringendoli e con le sue ventose li succhia e a lungo li aspira con numerosi succhiamenti” Il verbo urino ovvero urinor è attestato sia nella forma attiva che in quella deponente in Varrone, Cicerone e Plinio.

Anche Livio Ab urbe condita XLIV, 10 usa il termine urinatores nel riferire un episodio della guerra contro Perseo di Macedonia nel 168 a.C.; il re, terrorizzato dall’arrivo dei Romani, dette ordine di gettare in mare tutti i tesori reali di Pella, ma poi, essendosi pentito, ne dispose il ripescaggio, ingaggiando dei sommozzatori che poi fece uccidere per eliminare ogni testimone superstite di quel suo ordine così insensato: “Perseus tandem pavore eo, quo attonitus fuerat, recepto animo malle imperiis suis non obtemperatum esse, cum trepidans gazam in mare deici Pellae, Thessalonicae navalia iusserat incendi. Andronicus Thessalonicam missus traxerat tempus, id ipsum, quod accidit, paenitentiae relinquens locum. Incautior Nicias Pellae proiciendo pecuniae partem, quae fuerat Phacum; sed in re emendabili visus lapsus esse, quod per urinatores omnis ferme extracta est. Tantusque pudor regi pavoris eius fuit, ut urinatores clam interfici iusserit deinde Andronicum quoque et Nician, ne quis tam dementis imperii conscius existeret”, “Perseo, ripresosi una buona volta dal terrore che ne aveva paralizzato l’azione, avrebbe voluto che non si fosse data esecuzione all’ordine, impartito in un momento di debolezza, di gettare in mare il suo tesoro a Pella, e a Tessalonica di incendiar l’arsenale. Andronico, inviato a Tessalonica, aveva cercato di guadagnar tempo, proprio con l’intenzione di lasciare al re la possibilità di ripensarci, come di fatto avvenne. Più precipitoso fu Nicia a Pella nel far getto di una parte del denaro che era custodito nei pressi di Faco; ma sembrò incorso in colpa facilmente rimediabile, perché quasi tutto fu ripescato ad opera di sommozzatori. E il re provò tanta vergogna di quel suo panico, da far uccidere nascostamente i sommozzatori e poi anche Andronico e Nicia, perché non sopravvivesse più alcuno che fosse a parte di quel suo ordine pazzesco.”

Altra terminologia per indicare la professione di chi s’immerge in acqua non è riscontrabile in latino, poiché vocaboli come natator o nantes debbono intendersi riferiti alla semplice attitudine al nuoto e non alla subacquea.

Il latino quindi circoscrive quell’attitudine esclusivamente al termine urinator, laddove il greco presenta un’apparente poliedricità lessicale, anche se, per quanto si è avuto modo di esaminare, soltanto il termine usato da Erodoto, dÚthj, configura nella situazione di Scillia l’abilità immersiva del natante.

Come accennato in apertura della sezione dedicata al mestiere del subacqueo nell’antichità, ad ogni buon conto, né l’una né l’altra lingua adottano le radici di βαθύς e profundus per indicare il mestiere dell’immersore professionista; la valenza fascinosa e misterica di entrambe ne sconsigliava l’utilizzo per un approccio all’elemento idrico che presupponesse dimestichezza e routinarietà.

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