Napolitano e la lobby del “No Brexit” (parte I)©

Napolitano, Lobby "No Brexit" (III)

Napolitano e la lobby del “No Brexit” (parte I)©

Di Michel Fonte©

Vedo oltre decentrato, credit Mary Blindflowers©

C’è una definizione ricorrente nel linguaggio di Giorgio Napolitano, quel “populismo democratico” che cita in ogni concione con un disappunto malcelato e con il chiaro obiettivo di spaventare l’uditorio prefigurando scenari apocalittici, che sono oramai divenuti il verbo quotidiano dei difensori ad oltranza dell’UE. In tal senso, il referendum sull’uscita o la permanenza della Gran Bretagna è un esempio calzante del loro incessante gioco sporco. Il problema è che in quanto apostolo laico, e direi quasi blasfemo, dell’UE, il “migliorista” finge di non sapere che la catastrofe si è già abbattuta sui popoli d’Europa e sulle istituzioni democratiche che la governano. Il due volte presidente della repubblica, prima anomalia di un parlamentarismo malato, dovrebbe illuminarci sul concetto di populismo, se ci fosse stato Socrate facendo leva sul tradizionale ma mai vetusto metodo maieutico, lo avrebbe condotto verso un articolato ragionamento che avrebbe scardinato le sue interessate certezze, salvo che non ci si trovasse al cospetto di un politico intellettualmente disonesto. Il vocabolo “populismo”, fortemente stigmatizzato da coloro che ci tengono a conservare l’insegna di moderati, anche se in molti casi si dovrebbe parlare esclusivamente di mediocri, ha le sue radici in un orientamento politico che valorizza il popolo ponendo al centro le sue esigenze e aspirazioni, e fu coniato per la prima volta verso la fine dell’800 in Russia – la madre del comunismo che Napolitano dovrebbe conoscere molto bene dato che il PCUS finanziava i partiti fratelli d’occidente – con il nobile proposito di migliorare le condizioni di vita delle classi contadine e dei servitori della gleba, una visione condivisa nel 1891 addirittura nei liberali Stati Uniti d’America, altro paese che il nostro contemporaneo eroe dei due mondi ha frequentato con assiduità, in cui il Populist o People’s Party, aveva come programma non l’imposizione di un modello autoritario, ma, al contrario, una più marcata democratizzazione delle istituzioni della confederazione attraverso la nazionalizzazione dei mezzi di comunicazione, l’adeguamento delle tasse di successione ad un livello congruo, l’elezione di presidente, vicepresidente e senatori con un voto popolare diretto e non di secondo grado. Napolitano alla pari di Monti, che in una recente intervista ha dichiarato la necessità di rassegnarsi alla perdita di diritti fondamentali, manifesta una certa allergia alla democrazia che rasenta l’idiosincrasia, e che esprime con tutti mezzi della comunicazione a sua disposizione, forse anche per sopperire al mutismo istituzionale di Mattarella, tacciando ogni forma dissenso dal pensiero unico di cui è portavoce come “populismo democratico.

L’ex presidente, quindi, ammette implicitamente che questo populismo non è né demagogico né autoritario, ma l’incarnazione delle legittime rivendicazioni della stragrande maggioranza del corpo sociale, nonché l’espressione dei suoi bisogni primari (diritto alla casa, al lavoro, all’assistenza sanitaria), eppure nonostante ciò fa spallucce e tira avanti per la sua strada, oramai al tramonto, svelando quella che è e che è sempre stata la sua cifra politica e la sua concezione di sovranità popolare. Per l’ex presidente la democrazia è un affare per pochi eletti, o meglio nominati, gli stessi che ha messo a sedere sullo scranno di presidente del consiglio, i vari Monti, Letta e Renzi (di cui solo il secondo eletto in parlamento, ma con una legge, il porcellum, dichiarata incostituzionale) e che ha promosso a salvatori della patria, solo che non si è capito bene se quella italiana o europea, perché le due realtà, come nel paradigma hegeliano, si incontrano in un’inconciliabile antitesi in cui se una vive l’altra muore con buona pace di euristi ed europeisti. Un politico andrebbe giudicato non per i libri che scrive, per cui nulla si dirà sull’ultima fatica letteraria di re Giorgio (Europa politica e passione”) che onestamente non credo rimarrà tra le opere scientifiche degne di nota, ma per la carriera e il personale percorso istituzionale. Ebbene, Napolitano, con il suo migliorismo, si inscrive con tutti i canoni al peggior “trasformismo” che questo paese ha dovuto sopportare nel corso della sua tormentata storia unitaria, è quello stesso trasformismo che Renzi spalleggiato proprio dall’ex presidente della repubblica ha più volte dichiarato di voler cancellare, peccato che il suo esecutivo abbia finito per esserne la sublimazione imbarcando di tutto e di più, dai centristi agli ex esponenti di Scelta Civica, passando per Alfano e Cicchitto e i transfughi del M5S fino ad arrivare ad ALA, gruppo politico di Verdini che si guadagna con merito la palma dei voltagabbana della legislatura.

Napolitano di fronte ad un esecutivo funzionante come un albergo a ore o ad un postribolo, non ha mai sentito la necessità di una verifica politica avallando dapprima un contratto privato e segreto tra due leader di partito, Renzi (non eletto) e Berlusconi, che è qualcosa che non solo va al di là della Costituzione, ma contrario allo spirito della medesima, e successivamente, dal momento in cui il patto del Nazareno era già finito in frantumi, ha astutamente abbandonato il campo al suo successore ignorando con sfacciataggine tutte le manovre extraparlamentari e i cambiamenti di casacca con i quali si è data la stura all’ennesima compravendita di parlamentari e voti. Si può asserire senza alcun dubbio che il suo presunto ruolo di garante della Costituzione non è stato tale, non lo è stato quando con indifferenza ha lasciato che Berlusconi facesse adottare dal parlamento tutta una serie di legge ad personam restando in compunto silenzio; non lo è stato quando d’accordo con Angela Merkel, Barack Obama e un pugno di burocrati europei ha dato il suo appoggio per disarcionare lo stesso leader del Pdl con le nuove armi di distruzione di singoli e massa, vale a dire le speculazioni borsistiche, che hanno dapprima colpito i titoli di stato italiani (il famoso rialzo dello spread) e poi direttamente le quote azionarie dell’impero Mediaset; non lo è stato, infine, quando di fronte alle dimissioni dell’esecutivo Berlusconi (2011) anziché far tornare il pallone a centrocampo per una nuova partita elettorale, ha deciso, con la colpevole complicità dello stesso condottiero di Arcore, di prolungare la contesa ai tempi supplementari con la speranza, vana, di truccare l’esito del gioco “normalizzando” e “neutralizzando” il crescente populismo con un programma di controriforme demolitrici di diritti acquisiti e tutele guadagnati con anni di lotte proprio dal fronte socialista e comunista a cui, con molti dubbi per la verità, si suppone appartenga. In sostanza, durante l’esperienza Monti (2011-2013), si è elaborata una piattaforma di misure economiche non sottoposte e non concordate con il corpo elettorale, e portate a compimento dietro il paravento di un esecutivo tecnico ma nei fatti eminentemente politico, visto l’accordo internazionale siglato dal professore bocconiano che va sotto il nome di Fiscal Compact (Patto di bilancio firmato da 25 paesi dell’UE nel marzo 2012 ed in vigore dal 1° gennaio 2013 con l’avvenuta ratifica da parte di 24 degli stati aderenti) ed il beneplacito dato dallo stesso al MES, il Meccanismo europeo di stabilità detto anche Fondo salva-Stati, approvato dal Parlamento europeo e ratificato dal Consiglio Europeo nel marzo 2011, che ha assunto le connotazioni di un’organizzazione intergovernativa molto simile all’odiato e spesso contestato FMI, in particolare, nel luglio 2012 il professore ne richiese l’approvazione alle camere come punto qualificante e imprescindibile del suo mandato, ottenendo l’adesione di una larga maggioranza in parlamento (191 sì, 15 astenuti e 21 no al Senato, 380 sì, 36 astenuti e 59 no alla Camera). Con i due sopraccitati trattati si è sostanzialmente ceduta un’ulteriore e fondamentale quota di sovranità nazionale alla tecnocrazia europea ferendo a morte l’ispirazione keynesiana della carta costituzionale, lo si è fatto, con Napolitano in testa, rimestando la solita, infida sbobba de “L’Europa ce lo chiede” e relativo corollario di misure di rigore contabile, ovviamente, a spese dei soliti noti – pensionati, lavoratori, piccoli artigiani e professionisti – che hanno dovuto sopportare un coacervo di provvedimenti (legge Fornero, spending rewiew con tagli indiscriminati ad enti locali, spesa sociale e sanità, reintroduzione della tassa sulla prima casa detta Imu, aumento delle accise sui carburanti, aumento dell’Iva del 2% di tutte le aliquote, imposta fissa di bollo sui conti correnti) che hanno rimandato alle peggiori manovre di matrice democristiana.

Altro che rivoluzione montiana, ancora risuonano le parole del professore: “Capisco il disagio dei cittadini, ma la catastrofe incombe e va evitata, anche se costa.”

Purtroppo, com’era prevedibile, la catastrofe non è stata evitata, anzi, l’austerità di Monti non ha fatto che aggravare la crisi del sistema Italia conducendolo in piena recessione, tanto che allora si disse non senza ragione che se quelli erano i rimedi dei professori sarebbe stato meglio affidare la guida del paese ai bidelli.

Comment (1)

  1. François

    Analisi impeccabile. Purtroppo.

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