Di Lucio Pistis & Sandro Asebès©

Donna che nutre cipolle, pastel on paper, by Mary Blindflowers©
Oggi parliamo di una scrittrice che, purtroppo, non ha bisogno di presentazioni: Margaret Mazzantini, figlia di uno scrittore, Carlo Mazzantini, e di una pittrice, moglie di Castellitto, regista-attore che non perde occasione per pubblicizzare i libri della moglie perfino nei concerti, con richiamo di nomi noti della musica leggera: Vasco Rossi, tanto per citarne uno. Si offre così all’indottrinamento delle masse ignare lo spettacolo pietoso di cantanti che si definiscono “contro” e che poi se la fanno coi principi del salottino borghese. Bonjour médiocrité. Mediocre pure il dialoghetto che Castellitto estrapola dal libro della sua bella. Un dialogo inutile che sembra scritto da un ragazzino delle elementari e su cui non vale la pena nemmeno di sprecarci una parola, dato che la vita è breve. L’ex attrice è considerata misteriosamente da taluni “una scrittrice di talento”, tant’è che pubblica con Mondadori, Marsilio, Einaudi. Ha vinto anche premi letterari importanti, è spesso ospite d’onore a numerosi quanto pilotati festival della letteratura italiana, insomma, qui stiamo parlando di roba grossa. Noi però non siamo mai riusciti a finire un suo romanzo. Scrittura usa e getta, giocata sul sentimentale, che fa leva su facili patetismi, su messaggi per una massa che di letture in vita sua ne ha fatto ben poche. I classici libri da autogrill che hanno poco da invidiare al tanto giustamente bistrattato Moccia. La Mazzantini però fa sul serio, lei scrive, si sente una scrittrice e si commuove pure leggendo quello che scrive, non si sa bene se per disperazione, per gioia o perché abbia inghiottito qualche cipolla cruda. E il marito gira, pubblicizza, si dà da fare, solletica i cantanti, e così vende un prodotto scarso, piombo spacciato per oro in paginette che definire banali sarebbe un complimento all’autrice e quasi un’offesa alla banalità. Qui, cari signori, la banalità si scansa e dice: “ma come vi permettete?”.
Inserita nei grandi salotti e circoli culturali che contano, la “scrittrice”, chiamiamola così, nonostante saltelli da un salottino all’altro, ha anche lo stomaco di definirsi “l’outsider della letteratura”, una che “sta fuori dai grandi flussi” e canterebbe con la sua voce, la “marginalità”. In pratica una che parla di barboni senza averne sentito mai nemmeno il profumo, di infelici che vivono in guerra, pur avendo una vita ultra-patinata vissuta e pasciuta sotto la protettiva campana di vetro allestita da gente che conta e decide chi può fare successo e chi no nell’italietta dei bluff. In poche parole lei può. Ha avuto il visto dei circoli di potere.
Scrive in Zorro: “I barboni sono randagi scappati dalle nostre case, odorano dei nostri armadi, puzzano di ciò che non hanno, ma anche di tutto ciò che ci manca”. Un falso pietismo, una posa populista di chi sa bene di appartenere ad un mondo di privilegiati. Nel momento stesso in cui finge di amare i marginali per costruire un personaggio popolare, si cosparge di profumo di marca e fa l’occhiolino al politico.
L’ipocrisia della banalità si avverte anche nelle frasette inneggianti all’amore, stile romanzetti quarta categoria, in fondo a destra, prego, là c’è il bagno: “Gli occhi dietro alle lacrime come due pesciolini in un mare troppo stretto”, oppure “E quando quella mano fredda, come la pietra dov’era posata, si ferma sulla mia guancia, io so che la amo. La amo, figlia mia, come non ho mai amato nessuno. La amo come un mendicante, come un lupo, come un ramo di ortica”.
Ma vediamo alcune sue “emozioni in versi”:
Era una che ti guarda e non ti lascia
Ti viene a salvare nel fondo dove ti sei impigliato
Ha un coltello in bocca
Ti sgancia i pesi
Taglia i lacci delle bombole
O muore lì sotto con te
o tornate in superficie insieme
Pura prosa. Di poesia qui non ce n’è, tecnicamente parlando.
Ma passiamo al contenuto. In un’unica linea, l’ingressiva, l’autrice pretende di condensare la valenza dello sguardo della donna con 7 ulteriori righe pseudo-ermeneutiche di quell’occhiata. Che si dovrebbe intuire in quegli occhi? Condivisione di un dramma, vocazione all’Esercito della Salvezza, visione pan-soterica della femmina? Non si riesce a comprenderlo in queste 8 righe completamente prive di ritmo e simmetrie per esser definite poesia!
E ancora:
La schiena
è la parte che non puoi vederti,
quella che lasci agli altri.
Sulla schiena pesano i pensieri,
le spalle che hai voltato
quando hai deciso di andare.
Interessante questa poikilia del tema fedrico delle due bisacce; gravame di meditazioni sulle terga a fronte della sportina gravida dei difetti propri: si direbbe quasi che la poetessa si identifichi nella metafora non ravvedendo la pesantezza che offre ai propri lettori con queste sue rapide amenità concettuali dove affiorano tautologie devastanti: sul posteriore incomberebbero i pensieri e le spalle voltate partendosi. Ci si chiede: spalle e schiena non sono prossimi? Non ci è mai capitato di udire che sulla schiena gravino le spalle. Importante è apprendere idee nuove ed originalissime. Che comunicazione empatica c’è nel lasciare agli altri la propria posteriorità? Lo ignoriamo. In queste 6 linee l’autrice non riesce a farci capire che vissuto soggiace dietro questo verosimile addio tra non si capisce chi: ex amanti, soggetti legati da un rapporto di lavoro, genitori e figli? Spetterebbe al lettore universalizzare questo vissuto così effimero ed inespressivo. Ma non crediamo ne valga la pena. E anche in questo caso, destrutturando versi che vengono definiti audacemente “poesia” abbiamo una prosa piuttosto banale.
Delia era tante cose.
E a Gae erano piaciute quelle donne insieme.
Falde su falde, ghiaccio e fiamme,
tutti i colori delle emozioni.
La sensazione che il vento se la mangerà,
che tu devi tenerla insieme.
Gli piaceva un casino parlare con lei,
vederla cambiare,
guardare tutte quelle facce che faceva,
tutti i gesti che liberava.
Una mandria in corsa
dentro quegli occhi da indiana millenaria.
Era una pacchia.
L’antinoia.
Eravamo più avvezzi ad altre Delie, quelle più poliedriche ed enigmatiche che Tibullo cantava nei suoi carmi: con la Mazzantini ci dobbiamo accontentare di una Delia allegrotta dispensatrice di spensieratezza: evidentemente questo protagonista maschile si nutre di parametri muliebri meno interrogativi e problematici. In più in questa poesiola vi è un’apertura al lessico colloquiale (casino, pacchia) non registrata nelle due precedenti. Vero è che i gergalismi mal si sposano con la creatività, se sono banali come in questo caso, però almeno non si dirà che la Mazzantini sia aliena dalle diversificazioni stilistiche… se ci si accontenta, tutto è lecito… Saremmo grati se la poetessa ci spiegasse la coesistenza in una donna che sembra avere le stigmate della leggerezza di pensieri, di superficialità e di uno sguardo da veneranda pellerossa che a noi inesperti dell’oftalmia allotria pare a tutta prima una leggera contraddizione… Il tentativo di far sembrare poliedrico il personaggio è abortito nella banalità del linguaggio, nel colloquialismo da bar e nel termine finale, antinoia, misero tentativo di far spuntare un capello di filosofia spiccia dentro un campo sterile, la ciliegina sulla torta del nulla che possiamo leggere grazie alle mille ramificazioni del potere.
Questa non è però letteratura, è solo spazzatura, a dispetto, cara Mazzantini, di chi ti regge il gioco.
https://antichecuriosita.co.uk/destrutturalismo-e-contro-comune-buon-senso-punti-fermi/
Non ho mai sopportato la scrittura di questa scrittrice sponsorizzata a destra e a manca a più non posso.Finalmente un giudizio e una analisi obiettiva da parte di una persona che ama la cultura! Un sospiro di sollievo! Purtroppo di queste figure di mezza tacca sono colme anche le realtà locali. Occupano spazi, influenzano.. Io ho deciso di sbattermene e di non spendere un briciolo di energia per queste figure alla Mazzantini. Sarà giudice inesorabile il Tempo.