La tovaglia di Dacia

La tovaglia di Dacia

La tovaglia di Dacia

Di Lucio Pistis e Sandro Asebès©

Le pecore nere, foto Mary Blindflowers©

Gentili lettori,

di solito quando si scrive per la prima volta su un blog ci si presenta. E questa è la nostra prima volta. Abbiamo 141 anni in due e siamo quelli che molti definirebbero dei vecchi rincitrulliti. I nostri nomi? Sebbene i nomi abbiamo poca importanza ve li diciamo lo stesso: Lucio Pistis e Sandro Asebès. Chi siamo? Due perfetti ed illustri sconosciuti che abitano l’uno di fronte all’altro, dentro due case bomboniera con giardino, piccole, ma pulitissime. Siamo infatti sposati con due donne che la maggior parte di voi definirebbe non belle e notevolmente irritanti, fissate con le pulizie e somiglianti a due piccole pere sfatte, ma per noi ciechi e innamorati, sempre bellissime come il primo giorno, salvo dare un’occhiatina ogni tanto alla vicina che innaffia le piante in tenuta semiadamitica nei mesi della grande calura estiva. Ma passiamo ad argomenti più seri. Siccome siamo in pensione da qualche tempo e la prospettiva di sopportare 24 ore su 24 il timbro stridulo e acuto delle voci delle nostre rispettive pere-mogli, non ci alletta, ogni giorno ci riuniamo davanti ad un caffè e ad una birra ghiacciata e riordiniamo i nostri vecchi e numerosi appunti. In cosa consistono? Niente di speciale, noterelle sparse su poesie, romanzi, pezzi teatrali che abbiamo avuto la fortuna o la sfortuna di leggere nel corso degli anni. Non siamo critici, ma semplici lettori. Non avremmo mai pensato di pubblicare i nostri elucubranti e un po’ folli promemoria in un blog. Ma è successo. Abbiamo visto per caso su un gruppo letterario di fb una conversazione su una poesia della Maraini su cui tempo fa avevamo annotato delle considerazioni, e, trovandoci d’accordo con il gestore di questo blog, che è intervenuto alla conversazione, abbiamo pensato: “Perché non scriviamo?” Magari ci risponde pure. Ci ha risposto e siamo qua. Abbiamo una rubrica tutta nostra: Great Masters’ Junk.

Cominciamo dunque dalla causa della nostra presenza qua:

E’ durato poco
ti ricordi
la tovaglia a fiori rossi
il bicchiere che sapeva d’uovo
l’acquazzone improvviso
i campi arruffati e vetrosi
gli archi di pietra serena
il giornale sulla testa
ingoiavi frutti di mare gonfi di pomodoro
il fango dentro le scarpe di tela
l’odore aspro di menta pestata
il nostro abbracciarci insaziabile
la lite nell’ascensore
la buccia di cocomero sul davanzale
ti ricordi
il fresco delle lenzuola
la finestra aveva una cresta di stelle arancioni
soffrivo di mal di pancia
la tua testa di ragazzo mi pesava sul petto
ti ricordi
è durato così poco ma dura ancora.

Dacia Maraini©

 

Cos’è dunque questa prosa che viene spacciata per poesia, se non un’elencazione di memorie di un rapporto amoroso? Sarà stata la fretta nella composizione, ma quelle che paiono proposizioni interrogative mancano inopinatamente del segno ortografico che le caratterizza e dunque siamo di fronte ad un’autrice che commette errori di grammatica da scuola elementare; tali assenze sono riferite alle linee (viene una reazione allergica a chiamarle versi!) 8, 15 e 20. Se invece chi l’ha scritta aveva l’intenzione di inanellare una serie di coordinate affermativo/asseverative, siamo abituati comunque a vedere le proposizioni coordinate o subordinate in legittima separazione asindetica qui totalmente assente! Altro errore di grammatica a livello scuola elementare! Forse siamo giurassici didatticamente parlando, ma così ci fu insegnato e certe novità ci spiazzano.

Dove sono poi le figure retoriche che dovrebbero elevare il tono stilistico di un testo creativo? Non una metafora, non una sineddoche, né metonimia. Un’abortiva sinestesia (gli archi di pietra serena) e niente più. E la sequenza delle linee presenta un’asimmetria devastante, ben risolvibile con un discorsivo prosastico peraltro molto ben agevolato da quel riferimento gastronomico e patologico dei mitili e della gastralgia quasi interconnessi!

Forse l’autrice sperava nell’effetto shock del paradosso finale con l’avversativa in clausula (“è durato poco, ma dura ancora”, con asindeto virgolato da chi commenta!), ma sembra emotivamente la classica montagna ingravidata che partorisce un topolino!

C’è altro da aggiungere in quest’assenza di tecnica poietica?

Il contenuto, c’è un contenuto?

Una nostalgia infantile legata ad oggetti e cibi di uso comune citati come nell’elenco del telefono, col risultato di offrire emozioni prendi e mangia, frettolose, senza approfondimento sentimentale. Gli oggetti citati, i frutti di mare, la tovaglia, la menta pestata, la buccia di cocomero sul davanzale, sembrano non avere vita, cadaveri riesumati per comporre una lirica senz’anima, innocua, inutilmente nostalgica. Ma dov’è il fervore del poeta? La sua sete, la sua volontà di gridare al mondo? La sua sofferenza o la sua gioia infinita che supera montagne e spacca pietre? Non c’è grido qui, ma un flebile pigolio, non c’è meta o senso che superi se stesso, ma una retorica che si auto-accarezza e si culla nella propria inutilità di fanciulla bene figlia di Topazia, che ha iniziato con La vacanza, sotto l’ala protettiva della stanza di Moravia. Correva l’anno 1962…

E siccome siamo due vecchi citrulli con un piede nella fossa, bevendo la nostra birra fresca, continuiamo a chiederci maliziosamente: “Ma se la Maraini non avesse conosciuto Moravia proprio, guarda caso, nel 1962, se non fosse stata figlia di un etnologo e di una nobildonna, le sue tovaglie e la menta pestata, le stelle arancioni e il mal di pancia, sarebbero considerate oggi poesia?”

Ai posteri l’ardua sentenza.

https://plus.google.com/101468185778115774572

https://antichecuriosita.co.uk/manifesto-destrutturalista-contro-comune-buonsenso/

Manifesto Destrutturalista contro comune buonsenso

Post a comment