Dalla parte di Democrito

Dalla parte di Democrito

Dalla parte di Democrito

Di Angelo Giubileo©

 

Venti classici, credit Mary Blindflowers©

La parte e l’intero. Lo spazio e il tempo. E per via, così a ogni distinzione o separazione: realtà o fantasia? Infatti, quanto sia sopravvalutata o sottovalutata la realtà è esperienza piuttosto comune, a svantaggio o vantaggio dell’illusione. Ma se riflettessimo, per un attimo, sulla radice del termine “realtà”, intuiremmo già che la cosa o le cose non sono poi così semplici; dato che il termine deriva dal latino res, per l’appunto “cosa” e presenta affinità con il sanscrito rāḥ che indica “possesso, bene, ricchezza”; allo stesso modo, se riflettessimo sulla radice del termine “fantasia” che deriva dal sostantivo greco φαντασία (phantasia), che sta per apparizione, manifestazione e, iterativamente, dal verbo ϕαίνω, ovvero: mostrare.

La questione, potremmo – d’ora in avanti, sempre in qualche modo – semplificare, riguarda quindi “la cosa” e “tutte le cose”. Whithead suggerisce che l’evidenza del senso comune costruisca ogni ipotesi scientifica in base ai concetti di “univocità” e concretezza”. Ma si sa, i concetti appartengono al mondo della mente e pertanto non sappiamo quanto esattamente riflettano la cosa pensata. E tuttavia, da un punto bisogna partire, preferendo così che sia un punto evidente, e quindi concreto, univoco, e quindi determinato. Ma, non è stato sempre questo il senso comune posseduto da quella parte del cosmo greco che ancora oggi chiamiamo “umano”.

Il paradosso di Achille e la tartaruga può servirci, forse meglio, a illustrare la cosa che qui intendiamo discutere. Zenone continuerebbe a ripeterci che Achille, trovandosi in posizione di partenza indietro rispetto alla posizione di partenza della tartaruga, secondo il moto di entrambi, non riuscirebbe mai a raggiungerla. La quale ipotesi, secondo il senso della comune esperienza, pur mantenendo profili di univocità, sembra per poco o per nulla evidente, ovvero un’ipotesi per poco o per nulla concreta. Tra l’improbabile e il non-essere.

In punto di partenza, Achille e la tartaruga sembra che “occupino”, univocamente, un dato punto; e così per via, nel prosieguo della distanza (spazio) che divide il corpo (concreto) e attraverso il moto (tempo) di entrambi. Ma, ragionavano anticamente, se dividiamo lo spazio in tanti segmenti in-finiti, chiamiamole parti, diventa impossibile per Achille raggiungere la tartaruga perché ogni volta che Achille occupi uno spazio ulteriore, in avanti secondo il moto rettilineo del tempo, allo stesso modo la tartaruga occupi uno spazio, quanto più minimo, avanti.

Non è soltanto questione di spazio geometrico (i cui elementi essenziali sono per l’appunto: piano, punto e retta), gli antichi ragionavano anche in termini piuttosto matematici. E invece, quanto al tempo, avendo sperimentato con i pochi mezzi a disposizione del loro tempo che l’asse terrestre ruotava, su se stesso, rispetto alla sfera ideale delle stelle fisse, preferivano concepire il moto in senso circolare. Niente di più e niente di meno che un “sistema di relazioni” tra “enti” (?), secondo le misure inventate dello spazio e del tempo. La teoria scientifica di cui maggiormente si avvalsero è nota con il nome di “precessione degli equinozi” e in base a essa “costruirono” la loro storia del tempo.

Che, come tutte le storie, non importa se duri in eterno oppure abbia in qualche modo avuto un inizio ed eventualmente, nel futuro, una fine. Le cose cominciavano tuttavia a farsi più complicate. Non era più solo questione di parti e intero. Infatti, l’intero cominciava ad assumere forme, via via, più complesse. Tanto che le disquisizioni cominciavano a trascurare viceversa la parte e le singole parti dell’intero ragionamento. Da Democrito agli epicurei, agli stoici, ai neoplatonici, che si sarebbero detti poi cristiani. Rispettivamente, ponendo l’accento – com’è solito dirsi – sul binomio di “ragione e necessità” (la parte e l’intero) in Democrito, il caso (la parte) della fisica epicurea, la natura dinamica della materia stoica (l’intero), la natura intuitiva dei postsocratici e quella spirituale dei neoplatonici (l’intero).

E tuttavia, le vie della logica, della fisica, della linguistica e della matematica avrebbero continuato a percorrere i sentieri interrotti (Heidegger), di sempre. Newton preferiva ri-tenere (possedere dopo una prima e ripetute volte) che “lo spazio” sia un’entità per se stessa (alla maniera di Esiodo nella Teogonia, principio e inizio di tutte le cose); Leibniz, invece, ciò che consente una relazione tra oggetti materiali (alla maniera degli attuali fisici teorici del Tutto, avventori dell’era delle macchine e dei calcolatori); Kant, piuttosto, una parte insieme a un’altra, il tempo, ma di un quadro sistematico mentalmente così strutturato.

Come riteniamo, pertanto, l’“umano”? Diremmo genericamente che sia parte del “vivente”, specie tra le diverse specie vegetali e animali. Nel corpus degli scritti vedici, tutti i viventi partecipano ugualmente al sacrificio dell’essere secondo il rito. Il termine sacrificio deriva dal sanscrito saks, che un esperto quale Franco Rendich traduce con “l’insieme (sa) dei moti nello spazio (ks)”. Il termine rito deriva invece dalla radice sanscrita ri- che indica l’azione dell’andare o fluire. Da questa radice, il sostantivo ritis, che sta per procedimento e, in generale, uso. In latino, il termine diventa ritus, nel greco ἀριϑμός (arithmòs) che sta per numero e, mediante sempre la radice sanscrita rtà- per misurato.

E pertanto, nell’ambito della presunta “scala” evolutiva, secondo l’ordine del tempo, il primo vivente è ritenuto sia la pianta. Poi gli animali, e quindi l’uomo. Anche questa stessa scala può indicare tuttavia due processi, uno di tipo discensionale, verso il basso, e l’altro di tipo ascensionale, verso l’alto. Così che, in ogni caso, le vie del vivente siano piuttosto tre: suolo, sotto-suolo e sopra-suolo. Le stesse vie che seguiranno, in ogni religione e fin dall’antichità, i corpi e poi le anime dei vivi, morti e risorti. A partire dalla prima narrazione completa, di cui oggi noi disponiamo, dell’epopea di Gilgames; laddove sono già contenuti tutti i temi delle teologie successive, e in particolare, per quanto qui ora interessa, la metafora perenne del viaggio (movimento nel tempo) che conduce il semidio (per due parti dio e per la restante parte uomo), in compagnia di Enkidu, nel “Paese (movimento nello spazio) del Vivente dove si abbatte il cedro”. Accadde così che il vecchio fondamento o paradigma del mondo vegetale sia soppiantato dal nuovo fondamento o paradigma sociale imposto dal mondo degli uomini: l’asse rotante, l’albero della vita, il ramo del traghettatore, il bastone che percuote il gregge, lo scettro che simboleggia il comando, etc. Tutte immagini dell’Uno.

Passaggio metafisico di cui è traccia, forse più che altrove, nell’immagine della tetraktys pitagorica, così come introdotta da Giorgio de Santillana:

Così nacque la teoria: ‘Tutte le cose sono numeri’, il che significava, per dirla all’antica, ‘la Natura delle cose è il numero’. Non serve a nulla chiedersi che cosa questo significasse esattamente, nel momento dell’intuizione creativa (manca davvero poco all’avvento del platonismo). Vi erano in quella proposizione secoli di pensieri e sentimenti a noi ignoti; il preciso e delicato tinnire della lira che diveniva il fulgore di una stella per l’anima, che si trasformava in stelle nell’oscuro manto del cielo che tutto abbraccia, l’Uno, la Monade di fuoco intelligente sola nell’oscurità del Senza-limite, che popola quella tenebra di una misteriosa teoria di unità di fuoco simili a sé, poiché ‘l’Uno generò il Due, il Due generò il Tre, e il Tre generò tutte le cose’”. “Generò tutte le cose”, perché giammai ancora avrebbe potuto “crearle”, tagliando come Gilgames nel Paese del Vivente dove abbatte il cedro sia lo spazio che il tempo, che Pitagora non permise ancora di separare, del Continuum. Per ciò, si aspettava Platone e soprattutto, dopo di lui, Aristotele con la sua concezione del Dio motore immobile. Scandalo e follia, per la “ragione e la necessità”, ma soprattutto: per la parte e per l’intero.

E infatti, non che l’Uno non fosse già conosciuto. E tuttavia, sarà per via dei Romani in epoca imperiale e a decorrere esattamente dalla morte di Cesare, che – come evidenzia Heidegger: “il verum si pone immediatamente come il rimanere in alto, che indica il retto; veritas è rectitudo, noi diciamo ‘correttezza’ (Richtigkeit). Ora, però, questa caratterizzazione originariamente romana dell’essenza della verità, che fissa il tratto fondamentale onnidominante della struttura essenziale dell’essenza della verità occidentale, accoglie spontaneamente uno sviluppo dell’essenza della verità che si profila già in seno alla grecità e che contrassegna al tempo stesso l’esordio della metafisica occidentale”.

Ma, in India, si erano guardati bene dal farlo.

Come Gilgames, anche Indra, l’eroe nazionale vedico, aveva “uccis(o) il drago che giaceva sulla montagna”. Facendo seguito a quali realtà e/o fantasie, aveva preso forma il corpus vedico, redatto nella lingua, finora più antica e a noi nota, il sanscrito vedico? Si ritiene, comunemente, che come per i teorici della precessione degli equinozi, il compito sia spettato ad astronomi. Redich scrive di “un sacerdote-astronomo, famoso veggente”: “Per prima cosa egli scelse la vocale i per indicare il moto ‘continuo’, azione tipica del verbo ‘andare’ (i, eti), e la vocale r per indicare il moto ‘diretto a una meta’, azione tipica dei verbi ‘muovere verso’, ‘giungere’, ‘incontrare’, ‘raggiungere’ (r, rcchati)”. E dunque è del moto (o “trasformazione”, di cui avrebbe detto a sproposito Aristotele: le cose, infatti, non diventano ma sono, anche se per ipotesi in luoghi e tempi diversi), che stiamo di nuovo discutendo. Circolare o lineare, intorno a un asse. Che sia anche quello, piuttosto alfabetico, intorno al quale assumono forma le vocali e le consonanti del linguaggio. Rispetto alla “i” e alla “r”, di cui si è detto, nel piano geometrico del foglio sul quale ora scrivo, un asse fermo nella posizione I che, nella successione spazio-temporale immaginata da Redich, muove verso una direzione I⁻.

Altro che “metafisica”, nella teologia vedica l’Uno ha il nome di Ka-Prajapati. Egli è l’incerto, colui che non sa (egli stesso) se esista. E il suo simbolo di distinzione (pronome chi?) è formato da un asse da cui si diramano due opposte direzioni nello spazio geometrico e due opposti movimenti circolari in un tempo che non sembra abbia un inizio né piuttosto una fine. Qualcosa che riecheggia il legno della croce cristiana, il nome di Gilgames che contiene l’albero-mesu, l’albero della quercia, il più maestoso della foresta, a cui s’impianta Pinocchio, l’asse del mulino di Amleto in de Santillana, e per tutte le forme: l’asse di ogni cosa in movimento nello spazio e nel tempo circostante.

Ma, secondo la logica classica, un asse non può rimanere fermo e in moto allo stesso tempo, salvo la successiva diversa lettura di Aristotele. Nel tentativo di determinare la cosa o ente, in relazione al moto della terra e degli astri, Democrito aveva compiuto uno sforzo mai più equiparato, introducendo il concetto di forza d’inerzia. In breve, la proprietà di un qualsiasi “corpo” capace di resistere alle variazioni dello stato di moto e quantificata da una sua massa inerziale.

Nella semplicità di questa nozione, ricompare anche un termine che in fisica, e più propriamente altrove, reca paura e sgomento: il “vuoto”, poi divenuto “nulla”. Plutarco riferisce che Democrito abbia detto: Che sostanze di numero infinito, indistruttibili e indifferenziate, nonché prive di qualità e affezioni, si muovono sparse nel vuoto. Potremmo anche chiamarle, com’è accaduto più di recente, onde gravitazionali e comunque “altro” che abbia a che fare con ciò che definiamo ancora materia o energia “oscura”; perché, pur essendone state formulate le ipotesi, non ci sia stato ancora modo di osservarne una benché minima parte.

Il vuoto non è mai “assoluto”; Epicuro lo dice “inerte, impassibile e incorporeo”. Nel vuoto, che i greci chiamarono anche abisso, e che oggi, più di tutte, richiama forse l’immagine di un buco-nero agiscono da sempre presenze misteriche, che non è possibile per l’“umano”svelare. Alla letteratura, serve un dio o semidio. A partire da Indra, che con la sua stessa forza, ovvero la folgore, fa a pezzi Vrtra. Ed è soprattutto qui che compare un altro elemento vitale, che è per l’appunto il fuoco. Non serve scomodare Prometeo e ancor prima Agni o l’altare del fuoco su cui si celebra il sacrificio del vivente che ascende ed entra in quello splendente del sole (cfr. R. Calasso); dato che, all’occorrenza, de Santillana chiarisce magnificamente che “il ‘fuoco’ è in realtà un cerchio massimo che si estende dal polo Nord al Polo Sud della sfera celeste, ragion per cui l’Atharva-Veda dice che i bastoncini per accendere il fuoco appartengono allo skamba, l’asse del mondo”.

Ma, se tali immagini vi sembrassero piuttosto lontane dalla vostra esperienza, per così dire comune, vi basterà allora far caso a cosa dice Plutarco a proposito dell’“impulso”, e oltre: Non bisogna combattere neanche una sensazione – tutte infatti presuppongono un contatto con qualcosa, come se dalla sorgente (n.d.r.: ignota) della mescolanza ciascuna prendesse ciò che le si addice e che le è proprio – né bisogna predicare qualcosa dell’intero, dato che si entra in contatto solo le parti (quest’eco giungerà forte e chiara a Wittgenstein); né bisogna ritenere che tutti subiscano le stesse affezioni, dato che certi ne hanno alcune e altri altre, a seconda delle diverse qualità e potenzialità dell’oggetto.

E quindi, de Santillana avverte che sia meglio non pensare all’asse in termini puramente analitici, una linea alla volta, e considerarlo invece un tutt’uno con la struttura avvolgente alla quale è collegato (…) Come il raggio fa automaticamente pensare al cerchio, così l’asse deve evocare i due cerchi massimi determinanti sulla superficie della sfera, i coluri equinoziale e solstiziale.

Il secolo scorso potrebbe anche passare alla storia come il secolo della logica matematica.

  • Nel 1931, il matematico austriaco Godel ha dimostrato i suoi due teoremi di incompletezza, che, all’interno di un sistema formale, conducono sia all’indecidibilità di ogni proposizione che all’impossibilità di dimostrarne la coerenza.

  • Nel 1969 appare per la prima volta, oggi non ancora tradotta integralmente in italiano, l’opera di G. S. Brown dal titolo inglese Laws of Form. In essa, la ricerca e l’analisi prende il via dal simbolo, chiamato anche “marchio” o “croce”, quale elemento essenziale o radice da cui derivi ogni forma. In effetti, qual è il metodo che Brown ri-scopre?

Opera una distinzione. Chiamala prima distinzione. Chiama lo spazio in cui si opera tale distinzione lo ‘spazio che mediante tale distinzione viene separato o diviso’”. In pratica, accade che la distinzione precede la separazione dello spazio e altera, così, la struttura del continuum.

  • Nel corso della sua opera, Brown giunge, in termini matematici, anche alla ri-soluzione dell’antico paradosso del mentitore. A tale proposito, riporta Watzlawick: “Tutti i numeri sono positivi, negativi o zero. Di conseguenza ogni numero che non sia positivo o zero è negativo e ogni numero che non sia negativo o zero deve essere positivo. E come la mettiamo allora con l’apparentemente innocua equazione X²+1=0? Se spostiamo l’1 dall’altro lato dell’equazione, otteniamo che X²=-1, e quindi che x =√-1. In un universo concettuale costruito in modo tale che ogni numero può essere solamente positivo, negativo o zero, tale risultato è però inimmaginabile, perché quale numero moltiplicato per se stesso (elevato al quadrato) può dare il risultato di -1? L’analogia di questa impasse con il dilemma paradossale precedentemente citato, che nasce in un mondo basato sul concetto di vero e falso e del terzo escluso, è ovvia. Tuttavia, per quanto immaginabile o inimmaginabile essa sia, matematici, fisici e ingegneri hanno già accettato con equanimità la radice quadrata di -1, le hanno assegnato il simbolo i (che significa immaginario), l’hanno inclusa nei loro calcoli al pari delle altre tre (immaginabili) categorie numeriche (positivo, negativo e zero), e con essa hanno ottenuto risultati pratici, concreti e perfettamente immaginabili”.

Il senso quindi è proprio questo: un continuo oltrepassare, anche oltre l’“umano”; salvo che non si scelga di fare come – dice de Santillana – pensava Newton, in ordine alla teoria della gravitazione universale, “matematicamente inoppugnabile, fisicamente inspiegabile: ‘Io non la capisco, e non intendo inventare ipotesi’. Aggiungendo immediatamente che: “La risposta dovette attendere Einstein; essa consistè in una pura realizzazione matematica che fece piazza pulita e dell’ubicazione univoca (così come nel regno della meccanica quantistica) e della concretezza (nello spazio del vuoto et similia). L’edificio di Descartes giacque in rovina. Ciò nonostante, la mente dell’uomo civile rimase tenacemente aggrappata a entrambi i principi, ritenendoli in accordo col comune buon senso: tipico caso di un’abitudine diventata una seconda natura. La nascita della fisica sperimentale fu uno dei fattori decisivi di questo cambiamento. Nulla che somigliasse a questo buon senso era praticato tanto tempo fa, prima del 500 a. C., quando l’unica realtà era il tempo e Parmenide non aveva ancora scoperto – o inventato – lo spazio”.

Giunti a questo punto, potremmo anche così concludere. Ma, in genere, la vita non fa sconti; così che Cicerone stesso invidiava Democrito per il fatto di avere una “mente sgombra da timore”: Ma la sicurezza di Democrito, che è una sorta di pace dello spirito, avrebbe dovuto essere esclusa da questa discussione (circa gli scopi della vita) perché proprio quella pace dello spirito è in se stessa la vita felice … E anche se per lui quella vita consisteva nel conoscere le cose, nondimeno egli auspicava che un intelletto sano fosse il risultato delle sue indagini nel campo della natura (ex G. de Santillana).

https://antichecuriosita.co.uk/manifesto-destrutturalista-contro-comune-buonsenso/

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