Giulio Bechi, Caccia grossa

Giulio Bechi, Caccia grossa

Giulio Bechi, Caccia grossa

Giulio Bechi, Caccia grossa

Giulio Bechi, Caccia grossa, Treves, 1922, credit Antiche Curiosità©

 

Mary Blindflowers©

Giulio Bechi, Caccia grossa

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Scorgo in rete una poesia in sardo dedicata alla Deledda che va via dalla Sardegna per cercare e trovare fama nei salotti romani dove il punto di vista diventa “esterno” all’Isola, un punto di vista esplicitato in “Cosima”. Versi bellini, mediamente assonanti, niente di che.
Mentre leggo questo poeta visto per caso, come un lampo il cervello associa, ricorda ed ecco che mi viene in mente Giulio Bechi. Chiedo all’autore della poesia se lo conosce, cosa ne pensa di come ha descritto l’Isola. Tutto tace. I sardi, di Bechi non vogliono parlare nemmeno oggi.
Perché?
Chi era costui?
Era un nobilotto che venne mandato come ufficiale in Sardegna a fine Ottocento. Della sua esperienza sarda scrisse un libro, “Caccia grossa, scene e figure del banditismo sardo”, pubblicato con i Fratelli Treves agli inizi del Novecento.
Il suddetto libro valse al Bechi la galera.
In una edizione del 1922 leggo cosa scrivono in proposito i Treves:

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Quando questo libro apparve per la prima volta, or son quasi tre lustri, fu salutato dal plauso unanime del pubblico e della critica… Ma un giornale sardo, che l’autore novellino aveva avuto la giovanile imprudenza di stuzzicare in qualche pagina piuttosto frizzante, imprese contro il temerario una campagna di guerra ad oltranza, additandolo ai popoli e denunciandolo al Governo come un calunniatore malizioso della Sardegna, e spigolando, a riprova, tutti quei passi del volume che potevano urtare la suscettibilità ombrosa di quei fieri isolani. E in un paesetto dove il Bechi aveva osato dire di aver veduto un maialino che girava per casa a guisa d’un cagnolino ammaestrato, il Consiglio Comunale si riunisce d’urgenza, si costituisce un Comitato di salute pubblica Pro Sardinia, il quale lancia un appello ai municipi sardi, ai sodalizi, ai rappresentanti politici, ai cittadini tutti, invitandoli a costituirsi in lega permanente per la difesa dell’Isola indegnamente oltraggiata.
L’agitazione si prolunga in altri paesi; le pagine del giornale accusatore si coprono di proteste e di firme; querele private e collettive (anche di comuni che non erano neppur nominati nel libro) fioccano d’ogni parte sulle spalle del mal capitato autore; mentre i deputati locali si fanno eco di questa agitazione; e, poiché l’autore era anche ufficiale, protestano al Ministro della Guerra, il quale, pro bono pacis, finisce per «sgnaccarlo», come si dice in gergo militare, agli arresti in fortezza.

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Mauro Pusceddu, in una prefazione abbastanza noiosa alla riedizione del romanzo per il Maestrale, domanda come a se stesso: “siamo noi ad avere i pregiudizi su quello che Bechi dice o è solo lui ad averli su di noi, su quello che siamo stati?” E conclude buonisticamente che Bechi non ha odio per la Sardegna né per i sardi. Del resto deve giustificare in qualche modo la riedizione del libro e lo fa secondo i dettami del presente. Se Bechi non ha odio nel senso puro del termine, ha comunque il sussiego schizzinoso del raffinato da salotto che si porta appresso la cultura del “continentale” che vede i sardi come “selvaggi”.
Perché le prefazioni tendono ultimamente a salvare capra e cavoli, edulcorando la realtà?
Bechi è un terribile snob e dal suo romanzo questo suo sentimento trapela, ed è inevitabile che sia così perché non costruisce un personaggio di fantasia ma parla in prima persona di se stesso e di un’esperienza vissuta, dato che in Sardegna c’è stato davvero. E i suoi non sono racconti per sentito dire, “contos de foghile“, come afferma impropriamente Pusceddu, perché Bechi i sardi e i banditi li ha conosciuti in prima persona.
Il suo punto di vista è quello del dominatore che va a compiere un’azione di forza in un’Isola che pretende essere sua e di un’Italietta che l’ha dimenticata.
Disprezza anche cibo che oggi è rinomato nel mondo:

La carne è un sogno, il pane una crosta sgrigliolante tra i denti con l’ironico nome di carta da musica… (in nota) Specie di schiacciata di farina, dura come il legno e sottile come la carta da cui prende il nome…

Disprezza la lingua:

Due barbacce salgono, bestemmiano tra di loro in un terribile idioma, intricato come il saraceno, sonante come lo spagnolo…

Le donne dell’alta società che Bechi frequenta nella sua terra, hanno un’idea preconcetta della Sardegna:

… la campanella squillava, e un sorriso correva da un capo all’altro sotto gli ombrellini, un sorriso di donne tutte belle, al cui orecchio scherzava la paroletta galante, mentre tentavano di fare un viso un po’ desolato per dirmi: O povero tenente! Laggiù, tra quei selvaggi la mandano? Torni presto, eh?

Nel romanzo i latitanti che si sono costituiti vengono chiamati “macacchi”, quindi assimilati al mondo animale, alla gerarchia dell’inferiore: “Petella si è rivolto ai due macacchi”.

La serva trattata con maschilismo compiacente da superiore a inferiore finché non si accorge che la ragazza gli preferisce un soldato:

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Quando rincaso trovo pronta una bella tazza di latte, che Caterina mi porge con uno dei suoi sorrisi… Io, sai, fin dai primi giorni quella benevolenza indulgente che ho per le mie inferiori, quando sono belline e che tendeva ad accorciare sempre più la scala sociale, che ci divideva. Ma lei mi fece capire che preferiva restarsene nel suo scalino… quella smorfiosa… si è creduta indegna di salire fino all’ufficiale e si è fermata al soldato: la cosa resta in famiglia…

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Di fronte al riconoscimento che i briganti, nonostante la vita alla macchia, mantengono l’onore della parola data e che lo Stato uccide di tasse la Sardegna e fa prosperare l’usura, c’è però anche la constatazione che i sardi sono indolenti:

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Via, siamo giusti, – riprese il commissario volgendo il viso verso di me – non hanno tutti i torti a lagnarsi dell’abbandono del governo. Tanto per dirne una, o dopo la venuta dei Sovrani, dopo tante belle promesse, che ci voleva a chiedere un credito di due o tre milioni, non di più – e impiantare una buona volta qua e là qualche monte frumentari? Si spazzava via questo lerciume vergognoso dell’usura, la gran piaga delle campagne, e si era già un bel passo avanti nella via della rigenerazione… Perché insomma un disgraziato contadino che vede andar nelle canne dei vampiri tutto il misero frutto de’ suoi stenti e delle sue fatiche, con che cuore può coltivare il suo pezzo di terra? Nel le pare? Le tasse – mi dirai – l’usura, le tariffe… Tutto vero: ma anche l’indolenza, amico, quell’indolenza atavica che porta il sardo al disprezzo di tuttociò ch’è opera di mano e sforzo di intelletto… Non dico di non averlo cercato anch’io il lato interessante e caratteristico di questa vita e di queste genti, ma forse perché mi sento moderno… io in queste vestigia a sprazzi di latino, di saraceno e di spagnuolo, in questi costumi di un altro tempo, in queste tradizioni di ospitalità ad oltranza e di vendetta a qualunque costo non ci trovo proprio nulla di straordinario…

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Non c’è odio ma c’è comunque un insistito senso di superiorità dell’uomo civile rispetto al selvaggio, sentimento che percorre tutto il romanzo. Consideriamo però che non è stato scritto oggi, con la sensibilità odierna, all’insegna del politicamente corretto, quindi perché giustificare una ripubblicazione insistendo su un’esigenza, quella dell’attenzione a come si parla, che è prettamente contemporanea?
Il romanzo va letto per come è stato scritto e non per come si vorrebbe che fosse.
Non è nemmeno un cattivo romanzo, si legge facilmente, è scorrevole, scritto bene, molto descrittivo, interessante. Definirlo, come è stato fatto da alcuni, un prodotto mediocre, solo perché mostra il lato negativo della Sardegna dal punto di vista della jeunesse dorée continentale, è ingiusto da un punto di vista letterario.
Che ancora oggi i sardi non vogliano parlare di Bechi o cerchino di addolcirne i contenuti giudicati inaccettabili, sfumandoli in accordo a questi tempi così ipocritamente ipersensibili, è operazione di cui la letteratura non ha affatto bisogno perché l’arte non ha obblighi morali di alcun tipo e andrebbe sempre contestualizzata, non ricoperta di miele ad uso e consumo di palati troppo fintamente fini.

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Comment (1)

  1. giancarlo

    Non mi esprimo né per l’uno né per l’altro, avendo anche io origini sarde e non sapendo cosa dire

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