Sangue blu, parassitismo, emofilia

Sangue blu, parassitismo, emofilia

Sangue blu, parassitismo, emofilia

 

 

Il sangue blu? Una forma di parassitismo.

Lightfood, credit Mary Blindflowers©

 

Di Lucio Pistis & Sandro Asebès©

 

Alcuni dicono che l’espressione “sangue blu” derivi dal fatto che un tempo i nobili non prendevano il sole, per distinguersi dai contadini che sfruttavano, costretti a lavorare nei campi e quindi col viso abbronzato. Attraverso la pelle bianca le vene bluastre erano più facilmente distinguibili, ergo sangue blu. Altri invece pensano che l’espressione derivi dal fatto che, siccome i nobili, per conservare il patrimonio, si sposavano tra consanguinei, spesso avevano l’emofilia, una malattia ereditaria che provoca gonfiori bluastri sul corpo. Qualunque sia il motivo per cui si dice che la nobiltà abbia il sangue blu, resta il fatto inequivocabile che se un aristocratico si ferisce, il sangue sgorga bello rosso, esattamente come quello di qualsiasi anonimo plebeo.

Inoltre tutti i beni accumulati dai nobili nel corso dei secoli, derivano dallo sfruttamento del lavoro altrui, dato che lavorare per un nobile era una vergogna. Così l’aristocrazia passava il suo tempo a gestire terre indebitamente accumulate, a intascare le decime dai contadini affetti da pellagra e altre malattie da denutrizione; a giocare a scacchi, a dama, a carte; a fare la caccia alla volpe, divertendosi sadicamente a braccarla coi cani per poi esibirla come trofeo; ad accoppiarsi letteralmente come cani specie nelle corti dove il re aveva la sposa ufficiale e un certo numero di cortigiane che gli si votavano anima e corpo; a ballare; a giocare di spada e di picca; ad interloquire con garbo; a studiare mille modi per usare il ventaglio; a suonare vari strumenti musicali; a studiare il latino, il francese, la retorica, la matematica, etc. coi precettori privati, oppure in scuole esclusive e costosissime per soli nobili, in genere gestite da gesuiti che raccomandavano loro di non far bagatelle per strada, e di non dare confidenza alla gente di umili origini, che non possedeva i loro quarti di nobiltà. In poche parole i nobili non lavoravano perché avevano chi era costretto a lavorare per loro. La nobiltà è sempre stata a tutti gli effetti una forma di parassitismo. E sembra incredibile che nei regimi che oggi si dichiarano democratici, i nobili conservino i patrimoni accumulati con il sangue del popolo.

Ma di fatto ancora oggi nel 2018 si plaude alla nobiltà, un concetto fasullo, un vero e proprio inesistente bluff, dato che, come diceva il più illustre dei poeti, Dante Alighieri, la vera nobiltà è solo quella dell’animo. Il sangue blu non esiste.

Ne Il Dialogo sopra la nobiltà di Giuseppe Parini, un nobile e un poeta discutono:

NOBILE: È egli però possibile, animale, che tu non ti avveda quanto celebri, quanto illustri, e quanto grandi uomini sieno stati questi miei avoli?

POETA: Io giurovi ch’io non ne ho udito mai favellare. Ma che hann’eglino però fatto cotesti sì celebri avoli vostri? Hanno eglino forse trovato la maniera del coltivare i campi; hanno eglino ridotti gli uomini selvaggi a vivere in compagnia? Hanno eglino forse trovato la religione, le leggi e le arti che sono necessarie alla vita umana? S’egli hanno fatto niente di questo, io confessovi sinceramente che cotesti vostri avoli meritavano d’essere rispettati da’ loro contemporanei, e che noi ancora non possiamo a meno di non portar riverenza alla memoria loro. Or dite, che hanno eglino fatto? … Voi fate tutto il possibile per rivelare la loro vergogna e per isvergognare anche voi stesso, se fosse vero, come voi dite, che a voi dovesse discendere il merito de’ vostri maggiori e che questi fossero stati i meriti loro. Io credo bene che tra’ vostri antenati, così come tra’ nobili che io ho conosciuti, vi saranno stati di quelli che meriterebbono d’essere imitati per l’eccellenza delle loro sociali virtù; ma siccome queste virtù non si curano di andare in volta a processione, così si saranno dimenticate insieme col nome di que’ felici vostri antenati, che le hanno possedute.

Il poeta dimostra al nobile l’inconsistenza delle sue argomentazioni in difesa dell’aristocrazia, tanto che il nobile nella finzione letteraria si confonde e si convince:

NOBILE: Tu m’hai così confuso, ch’io non so dove io m’abbia il capo. Io son rimasto oggimai come la cornacchia d’Esopo, senza pure una piuma dintorno. Se per questo, per cui io mi credeva di meritar tanto, io sono ora convinto di non meritar nulla…

POETA Coraggio, Signore; ché voi siete giunto finalmente a mirare in viso la bella verità. Pochissimi sono coloro che veder la possono colassù tra’ viventi; e qui solo tra queste tenebre ci aspetta a lasciarsi vedere tutta nuda com’ella è. Coraggio, Eccellenza.

NOBILE Dammi del tu in tua malora, dammi del tu; ch’io trovomi alla fine perfettamente tuo eguale, se non anzi al disotto di te medesimo, dappoiché io non trovomi aver più nulla per cui mi paia di poter esigere segni di rispetto e di riverenza di sorta alcuna

E che dire della poesia di Totò “a livella” in cui un nobile Marchese viene seppellito accanto ad un plebeo?

La chiosa ricorda al tracotante nobiluomo che le pagliacciate sulla nobiltà vanno bene solo per i vivi perché la morte è una livella:

Tu qua’ Natale…Pasca e Ppifania!!!
T”o vvuo’ mettere ‘ncapo…’int’a cervella
che staje malato ancora e’ fantasia?…
‘A morte ‘o ssaje ched”e?…è una livella.

‘Nu rre,’nu maggistrato,’nu grand’ommo,
trasenno stu canciello ha fatt’o punto
c’ha perzo tutto,’a vita e pure ‘o nomme:
tu nu t’hè fatto ancora chistu cunto?

Perciò, stamme a ssenti…nun fa”o restivo,
suppuorteme vicino-che te ‘mporta?
Sti ppagliacciate ‘e ffanno sulo ‘e vive:
nuje simmo serie…appartenimmo à morte!

Ma l’esempio più cogente di quel parassitismo concettuale che caratterizza il rapporto tra nobile e lavoratore si può intravedere nel modo in cui Tito Livio, un servo del potere, traccia il racconto favolistico dell’apologo di Menenio Agrippa (un nobile, appunto, un parassita), per convincere i plebei a smetterla con la secessione aventiniana e tornare a farsi il culo per loro (cioè andare in armi a difendere la patria minacciata); Tito Livio, così come ci è stato tradito ed edulcorato ad usum delphini nella scuola della riforma gentiliana, fa emergere nel suo racconto la saggezza inarrivabile del nobile Agrippa tacitando l’effettualità storica che portò grossi progressi alla plebe in virtù di quella secessione; le generazioni dei bimbi italiani, abbeverandosi al racconto di Tito Livio, di un parassita al servizio dell’imperatore, mutuano da decenni e decenni l’idea dell’ineluttabile collaborazione tra ricco e povero per la salvaguardia dello Stato e minimamente si interrogano sul perché di quella ribellione ai parassiti di sangue blu: tutto ciò per dire che anche la manipolazione dei dati effettuali storici è frutto di sfruttamento scientifico da parte di chi domina allo scopo di oppiare le coscienze di chi legge.

È appena il caso di accennare all’etimo della parola nobile che deriva dalla radice *gnoscere ad indicare chi è conosciuto, chi si distingue al punto da avere il diritto di appendere ai muri della propria casa le cosiddette insignia, le immagini dei parenti e le proprie; conseguentemente chi non aveva immagini da mostrare non poteva che essere ignobilis, col prefisso in che significava la negazione dell’aggettivo positivo; dal valore neutro di non conosciuto sintomaticamente l’aggettivo ignobile oggi nella lingua italiana ha derivato un’accezione altamente spregiativa dal punto di vista etico: chi ha comportamenti spregevoli, eticamente esecrabili appunto si definisce oggi in altri termini un non nobile, uno sconosciuto!

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