Pressburger, la neve e la colpa senza polpa

Pressburger, la neve e la colpa senza polpa

Pressburger, la neve e la colpa senza polpa

Di Lucio Pistis & Sandro Asebès©

 

Neve sporca, credit Mary Blindflowers©

 

Giorgio Pressburger, La neve e la colpa, edizioni Einaudi 1998, copertina rigida con sovraccoperta illustrata bianco e nero. Un testo dalla veste austera, ristampato più volte e ancora disponibile nei normali circuiti di vendita.

Si tratta di una raccolta di racconti di cui il primo dà il titolo al libro. Il linguaggio è molto semplice, quasi infantile, lo stile poco ricercato, i dialoghi brevi e ordinari. Ma il problema vero sono le trame che, secondo l’autore sarebbero “storie vere”. Forse un po’ distorte da memoria e tempo, perché a quanto pare l’inverosimiglianza e l’errore la fanno da padroni.

Nel primo racconto c’è una macroscopica toppa.

Praticamente la storia si articola su un incidente accaduto in montagna. Quattro amici medici, un ceco, un romano, un inglese e un argentino, si riuniscono ai piedi della parete occidentale del Gran Sasso. Cenano in un albergo, passano una notte tranquilla e l’indomani mattina decidono di affrontare la scalata “ben equipaggiati e forniti di provviste adeguate”.

Perché stanno là? Per sollazzarsi?

Ma no, “per decidere l’indirizzo da dare alla medicina interna nei propri Paesi”.

Lo sanno tutti che quando dei medici devono prendere decisioni professionali importanti, si riuniscono ai piedi di una montagna innevata, un classico proprio.

Sorvoliamo sull’assurdità dello scopo.

L’autore si lancia in una filosofia spiccia della neve che corrisponderebbe alla colpa perché “copre tutto, erba, arbusti, cespugli: copre tutto con il suo manto bianco, scintillante, apparentemente eterno. Poi in primavera, tutto si scioglie al primo sole, le zolle bevono la neve che diventa acqua e scompare nel ventre della terra, nelle profonde cavità, nei fiumi sotterranei. La neve scompare (come scompare l’apparenza della colpa), ma la terra se ne imbeve, ne trae nutrimento per la bellezza della natura, i colori, i fiori e le foglie”.

In pratica, stabilendo un’ardita associazione tra neve e colpa, l’autore sostiene senza accorgersene che la colpa-neve, contribuisce alla bellezza. Non solo, ma arriva a sostenere che la colpa come la neve, è l’essenza delle cose: “tutto si nutre dell’acqua come della colpa che si fa assorbire, diventa l’essenza delle cose. Per questo si paragona la colpa alla neve”.

Cosa vuol dirci l’autore? Che siamo tutti colpevoli?

Che la bellezza stessa è colpa? Che la natura è colpa?

“La neve”, afferma uno dei personaggi, “è come il sapere, ma è anche come l’ignoranza. Non puoi vedere nulla, non puoi fare altro che mettere il piede in fallo. Ecco perché la neve è come la colpa, perché cancella tutte le strade”.

Appurato dunque eucaristicamente che siamo tutti peccatori e la natura stessa e i fiori e gli arbusti e le foglie sono peccatori, e che questa neve-colpa senza polpa è ignoranza e sapere contemporaneamente, e che i fiocchi di neve sono come luridi peccati vestiti di bianco che ci fanno oscillare da destra a sinistra, continuiamo in questa interessante lettura di pseudo-filosofia spiccia.

I quattro amici, troppo impegnati in associazioni filosofiche sulla neve, (ma non si erano riuniti per parlare di medicina?), si perdono. Uno di loro deve sondare il terreno e raggiungere un punto più alto segnato da un cerchio. Chaim si offre volontario sostituendo il suo amico Ismail che aveva deciso di andare per primo. Dopo poco ecco improvvisa la slavina che travolge tutto, ovviamente come la colpa. Tutti morti tranne Chaim perché si era aggrappato ad un albero e in una posizione diversa da quella dei suoi compagni. Il corpo di Ismail non viene mai trovato. Ovviamente Chaim si sente in colpa per essersi salvato al posto dell’amico. Il sopravvissuto organizza così una spedizione per trovare il corpo dell’amico, ma non lo ritrova. Torna dunque a casa. Sogna il suo amico che gli parla di “palazzi celesti, del Velo della Faccia degli angeli fatti di luce e di fuoco, del servo ammesso al Cospetto del Re, e anche di nuovi metodi di cura dell’epatite, ma Chaim nel riferire alla moglie il contenuto del sogno, non ricorda più alcun dettaglio”.

La moglie lo tranquillizza: “Non c’è nulla di male, i sogni vanno e vengono”.

Così ogni venerdì notte Chaim è visitato in sogno dal suo amico morto Ismail che gli dà consigli, segreti, gli infonde la scienza. Peccato che al risveglio Chaim non si ricordi mai nulla di ciò che gli dice Ismail. L’autore ci tiene a precisarlo più volte, tant’è che Chaim si scompone e urla: “Perché mi riveli tutto, se poi quando mi sveglio mi togli tutto? Sparisci, come la neve, come la colpa”.

Alla fine del racconto poi, l’autore, forse per un difetto di memoria causato dal troppo freddo della neve, asserisce candidamente che se Chaim non avesse causato involontariamente la morte dell’amico Ismail, come avrebbe potuto questi svelargli tanti segreti in sogno, segreti per curare tutti i mali dell’uomo? Testuale: “D’altronde, senza quella colpa, (di averne causato involontariamente la morte), come avrebbe appreso da lui tutto quello che voleva sapere: i nomi, le misure, la medicina per tutti i mali dell’uomo?”.

Il problema è che prima lo stesso autore ha scritto più e più volte che Chaim non ricordava mai nulla di questi consigli onirici!

Ancora una volta interviene la pseudo-filosofia: “Tutto quello che ci viene rivelato scompare nell’oscurità della coscienza e della mente, perché la conoscenza è colpa, come la neve”. Quindi Chaim avrebbe appresso senza sapere e senza ricordare.

Qui la confusione raggiunge l’acme, insomma non ricordiamo nulla ma sappiamo, non sappiamo e siamo colpevoli.

L’innesco sembra ridicolmente analogo alla nota canzoncina di Gino Paoli “4 amici al bar” e da questo innesco commerciale e commerciabilissimo l’autore prova ad elucubrare una sofistica da mercato rionale con addentellati di filologia d’accatto; la neve secondo lui coprirebbe come la colpa. Che cosa coprirebbe la colpa che secondo la gran parte degli interpreti deriverebbe dal greco κέλλω, che in latino diventa cello, donde l’italiano eccellere, accelerare, radicali estremamente dinamici al contrario della stasi dipinta dal paragone pennellato infelicemente da Pressburger? Neanche l’altra corrente di pensiero sul significato e le origini del termine aiuterebbe l’autore nel suo improbabile accostamento; KALP, attestato nell’antico indiano (kalpé) significherebbe “assecondare, favorire” in quanto ciò che costituisce colpa è inevitabilmente assecondamento, occasione di male, danno. Spiacenti, egregio autore! La colpa non copre assolutamente nulla: chi è colpevole è verosimilmente tale in ragione di un’indagine che ha rivelato, discoverto, come direbbero gli antichi, il danno commesso.

Nel secondo racconto una sconosciuta vede un uomo piangere e decide all’istante di innamorarsi di lui, di seguirlo, di concedersi per salvarlo dalla tristezza, di seguirlo ancora, di comparire e scomparire, di andare, tornare, in un rapporto che ha del ridicolo. E ridicole sono alcune scene che ricordano un film di quinta categoria. Il protagonista sta al bagno quando la donna bussa alla porta della sua stanza d’albergo, e bussa e bussa, ma egli non può aprire, si sta “sforzando”, dato che è stitico e costipato da ben sei giorni, ma la donna bussa, bussa ed egli ha paura dello scandalo, così si alza e va ad aprire, mentre litiga con lei e la picchia e le dice di andarsene e la chiama mostro in dialoghi da quinta elementare, gli calano le brache e si sporca tutto, come esito degli sforzi precedenti al gabinetto. Ecco, diremmo che il tema e l’ambientazione scelti in questo secondo pregevolissimo racconto (le feci, in greco κόπρος) debbono aver generato nell’autore un’assonanza di riflesso suggerendogli l’idea del coprire italiano, col conseguente accostamento nevicare-incolpare-coprire. Deus liberet!

Evito di proseguire oltre, chiedendoci come possano simili castronerie essere spacciate per letteratura e pubblicate da un grosso editore. Pressburger, guarda caso regista teatrale e cinematografico, direttore dell’Istituto italiano di cultura in Ungheria, era tutto, tranne che uno scrittore.

Pessimo.

https://antichecuriosita.co.uk/manifesto-destrutturalista-contro-comune-buonsenso/

Comment (1)

  1. Rita

    Non ho avuto il (dis)piacere di leggere questo libro. Mi piacerebbe comprarlo e dargli fuoco. Mi sono cadute le braccia nelle braghe 😂🤦🏻‍♀️

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