Napolitano, Lobby “No Brexit” (III)

Napolitano, Lobby "No Brexit" (III)

Napolitano, Lobby “No Brexit” (III)

Vedo oltre decentrato, credit Mary Blindflowers©

Michel Fonte©

Napolitano e la lobby No Brexit, parte III

Napolitano non vuole correre il pericolo di lasciare aperti spiragli di vita politica libera nel paese, per cui durante la sua presidenza si è convertito dapprima in ambasciatore della cessione illegale di pezzi di sovranità nazionale all’UE (governo Monti 2011-2013), successivamente in un massimalista della riforma elettorale e di quella costituzionale in nome di un altro finto totem che va sotto l’etichetta di “governabilità”, che però sarebbe più opportuno definire come “governabilità antidemocratica.” Volendoci soffermare solo sulle questioni procedurali, la riforma del Senato e del titolo V della Costituzione non poteva avvenire, così com’è accaduto, con il voto di parlamentari privi di una reale rappresentanza del corpo elettorale. La Corte Costituzionale, con sentenza 1/2014, ha rilevato la concreta violazione dell’esercizio del diritto di voto così come configurato dalla legge n. 270 del 2005 (“porcellum”), in quanto le norme in essa contenute risultano contrarie ai principi costituzionali del voto “personale ed eguale, libero e segreto” (art. 48, comma 2, Cost.) e della “rappresentanza democratica” (art. 1, comma 2, e art. 67 della Costituzione), nello specifico, dalle motivazioni si apprende che “il voto espresso dall’elettore, destinato a determinare per intero la composizione della Camera e del Senato, è un voto per la scelta della lista, ed escludono ogni facoltà dell’elettore di incidere sull’elezione dei propri rappresentanti, la quale dipende, oltre che, ovviamente, dal numero dei seggi ottenuti dalla lista di appartenenza, dall’ordine di presentazione dei candidati nella stessa, ordine di presentazione che è sostanzialmente deciso dai partiti. La scelta dell’elettore, in altri termini, si traduce in un voto di preferenza esclusivamente per la lista, che – in quanto presentata in circoscrizioni elettorali molto ampie, come si è rilevato – contiene un numero assai elevato di candidati, che può corrispondere all’intero numero dei seggi assegnati alla circoscrizione, e li rende, di conseguenza, difficilmente conoscibili dall’elettore stesso. Una simile disciplina priva l’elettore di ogni margine di scelta dei propri rappresentanti, scelta che è totalmente rimessa ai partiti. A tal proposito, questa Corte ha chiarito che «le funzioni attribuite ai partiti politici dalla legge ordinaria al fine di eleggere le assemblee – quali la presentazione di alternative elettorali e la selezione dei candidati alle cariche elettive pubbliche – non consentono di desumere l’esistenza di attribuzioni costituzionali, ma costituiscono il modo in cui il legislatore ordinario ha ritenuto di raccordare il diritto, costituzionalmente riconosciuto ai cittadini, di associarsi in una pluralità di partiti con la rappresentanza politica, necessaria per concorrere nell’ambito del procedimento elettorale, e trovano solo un fondamento nello stesso art. 49 Cost.» (ordinanza n. 79 del 2006). Simili funzioni devono, quindi, essere preordinate ad agevolare la partecipazione alla vita politica dei cittadini ed alla realizzazione di linee programmatiche che le formazioni politiche sottopongono al corpo elettorale, al fine di consentire una scelta più chiara e consapevole anche in riferimento ai candidati. In definitiva, è la circostanza che alla totalità dei parlamentari eletti, senza alcuna eccezione, manca il sostegno della indicazione personale dei cittadini, che ferisce la logica della rappresentanza consegnata nella Costituzione. Simili condizioni di voto, che impongono al cittadino, scegliendo una lista, di scegliere in blocco anche tutti i numerosi candidati in essa elencati, che non ha avuto modo di conoscere e valutare e che sono automaticamente destinati, in ragione della posizione in lista, a diventare deputati o senatori, rendono la disciplina in esame non comparabile né con altri sistemi caratterizzati da liste bloccate solo per una parte dei seggi, né con altri caratterizzati da circoscrizioni elettorali di dimensioni territorialmente ridotte, nelle quali il numero dei candidati da eleggere sia talmente esiguo da garantire l’effettiva conoscibilità degli stessi e con essa l’effettività della scelta e la libertà del voto (al pari di quanto accade nel caso dei collegi uninominali). Come si precisa successivamente con estrema chiarezza: “Le condizioni stabilite dalle norme censurate sono, viceversa, tali da alterare per l’intero complesso dei parlamentari il rapporto di rappresentanza fra elettori ed eletti. Anzi, impedendo che esso si costituisca correttamente e direttamente, coartano la libertà di scelta degli elettori nell’elezione dei propri rappresentanti in Parlamento, che costituisce una delle principali espressioni della sovranità popolare, e pertanto contraddicono il principio democratico, incidendo sulla stessa libertà del voto di cui all’art. 48 Cost. (sentenza n. 16 del 1978).” Se è vero che la Corte Costituzionale nelle stesse motivazioni della sentenza sottolineava che l’annullamento delle norme censurate (art. 83, comma 1, n. 5, e comma 2, del d.p.r. 30 marzo 1957 n. 361, art. 17, commi 2 e 4, del decreto legislativo 20 dicembre 1993, n. 533 e artt. 4, comma 2, e 59 del d.p.r. n. 361 del 1957, nonché dell’art. 14, comma 1, del d.lgs. n. 533 del 1993) avrebbe prodotto i suoi effetti esclusivamente in occasione di una nuova consultazione elettorale – da tenersi secondo le regole contenute nella normativa residua in vigore a seguito della medesima sentenza, ovvero secondo la nuova normativa elettorale eventualmente adottata dalle Camere – e che non andava a ledere in alcun modo gli atti posti in essere dal Parlamento, riferendosi sia agli esiti delle elezioni svoltesi sia alle misure adottate dalle Camere così come elette (ribadendo il principio fondamentale della continuità dello Stato), altrettanto vero che il rispetto dei principi di rappresentanza, sovranità e democraticità, avrebbero dovuto spingere verso una breve legislatura che avesse avuto come unico e prioritario obiettivo la riforma elettorale, per poi far ritornare rapidamente al voto i cittadini. Napolitano, invece, nell’immediatezza della sua seconda elezione a presidente della repubblica, pur rappresentando questo scenario alla pubblica opinione, approfittò dell’incapacità di Pier Luigi Bersani a formare un esecutivo (come capo della coalizione di centrosinistra vincitrice alle elezioni del febbraio 2013, ma priva della maggioranza al Senato), per mettere in piedi un altro governo fantoccio, avente lo stesso leitmotiv dell’antecedente gabinetto. Accantonata ogni velleità di modifica della legge elettorale, Enrico Letta si dedicò a prolungare l’austerità con gli stessi pessimi risultati del suo predecessore: il debito pubblico al termine del mandato (gennaio 2014) raggiunse i 2089,462 miliardi, con una crescita di 48,169 miliardi e un incremento medio mensile di 5,4 miliardi. Ma Napolitano ha fatto anche di più, com’è consono alla sua doppiezza d’azione dai tempi del comunista ben accetto agli Stati Uniti, ha agito in palese violazione del proprio ruolo di garante della Costituzione (art.87 Cost.) avallando e personalmente imponendo la nascita di un terzo governo, quello Renzi, che ha spinto e continua a spingere tutt’oggi verso un programma di modifiche legislative in campo economico amministrativo e costituzionale in assenza di un chiaro mandato elettorale. In particolare, ritornando alla sostanza della revisione costituzionale, cioè agli aspetti giuridici e non solo procedurali, si può dire che il vero focus della riforma é come espropriare i cittadini del diritto di voto e smorzare le pressioni autonomiste dei territori. Il nuovo Senato della repubblica, la legge elettorale, le modifiche al Titolo V e il riordino delle amministrazioni provinciali, sono i capisaldi di un progetto che vuole riportare il potere nella grande madre romana consacrando l’assolutismo di partiti e potentati elitari. C’e un filo che lega tutti i mutamenti legislativi fin qui adottati, innanzitutto, con il riassetto degli enti provinciali non si è prodotto alcun significativo risparmio di spesa, ma solo costruito un sistema d’elezione di secondo grado con sindaci e consiglieri in carica nei comuni delle provincie che hanno diritto di elettorato attivo e passivo, in altre parole, presidente dell’amministrazione provinciale diventa un consigliere o un primo cittadino nominato dai propri colleghi, e dato che i candidati a consigliere e sindaco nei vari comuni sono selezionati direttamente dai direttivi provinciali dei partiti, che quasi sempre rispondono alle “pressioni” dei parlamentari locali, si comprende come anche questa scelta è una scelta verticistica e romana.

La logica che ha ispirato la legge di modifica della composizione ed elezione del Senato della repubblica è la medesima. Il senato non elettivo porterà nell’aula di Palazzo Madama 100 rappresentanti: 5 nominati dal presidente della repubblica, 74 nominati tra i delegati dei consigli regionali e 21 tra i sindaci da parte degli stessi Consigli Regionali. Anche in questo caso ci troviamo di fronte ad un’elezione di secondo grado, con dei membri soggetti all’approvazione dei direttivi provinciali e regionali dei partiti, e quindi in ultima istanza al benestare di notabili (si legga ancora una volta parlamentari romani) che esercitano il loro potere nei territori regionali e provinciali di provenienza. Come se non bastasse, questa camera non avrà più la prerogativa di votare la fiducia al governo, in questo modo le direzioni partitiche si pongono al riparo da eventuali ribaltoni e ribellioni nei territori di esponenti partitici locali, offrendogli in cambio un mandato di lunga durata (7 anni) e l’immunità parlamentare, il cui funzionamento resta a tutt’oggi un’incognita. Non è affatto chiaro che cosa succederà se un sindaco o un consigliere regionale che ricopre la carica di senatore, venga indagato per atti concernenti l’attività amministrativa (Regione, Comune), allo stato attuale, sorge il sospetto che possa servirsi dell’immunità parlamentare per sfuggire a reati che non hanno nulla a che fare con la carica di senatore della repubblica, garantendosi un ottimo lasciapassare per fenomeni corruttivi e concussivi nella gestione degli enti locali. La legge elettorale, ribattezzata Italicum, completa il quadro, dando conferma sulle intenzioni di una classe politica che mira alla gestione oligarchica del potere, e lo fa laddove sancisce la presenza di 100 collegi plurinominali con capilista bloccati, che potranno arrivare a candidarsi fino a 10 collegi e che verranno automaticamente eletti nel caso scatti un seggio per la lista. Questo sistema permette di nuovo ai comitati ristretti dei partiti di nominare almeno il 65% dei deputati, e lasciare al corpo elettorale la scelta di un’influente minoranza (35%) rappresentativa della sovranità popolare. La dottrina ha evidenziato come tale compromesso rischi di non essere sufficiente ad ottemperare ai rilievi sanciti dalla sent. 1/2014 Corte Cost., in quanto “il principio affermato dalla Corte costituzionale non è soddisfatto dalla sola predisposizione di un sistema che presenti liste corte” ma esige che “l’elettore, nell’esprimere il voto, sia posto nella condizione di conoscere gli effetti che il suo voto determinerà nella distribuzione dei seggi e nella individuazione dei candidati.”

Detto in altre parole, il rapporto elettore-eletto si configura come puramente virtuale e l’espressione della preferenza nella maggioranza dei casi palesemente inutile, dato che il candidato in corsa per le preferenze per poter essere eletto nel collegio non solo dovrà raccogliere il voto individuale, ma dovrà auspicarsi che nel suo collegio siano assegnati almeno due seggi (in caso contrario risulterebbe eletto per legge il capolista indipendentemente dai rapporti di forza espressi dal voto ai componenti della lista) o che il capolista scelga, su indicazione del partito, di essere proclamato eletto in un altro collegio.

Bisogna aggiungere che senza eliminare i piccoli partiti, poiché la soglia di sbarramento resta intorno al 3%, si offre un premio di maggioranza spropositato, il 54%, corrispondente a 340 seggi, alla lista vincente che raggiunga al primo turno il 40% non degli aventi diritto al voto ma dei voti validi, questo significa che prendendo come base le elezioni politiche alla Camera del 2013, in cui su un totale di 46.905.154 elettori i voti validi furono il 72,50% pari a 34.005.7551 (che sono il risultato che si ottiene, al netto dell’astensionismo [11.634.228] decurtando dal totale dei voti espressi [35.270.926 pari al 75,20%] le schede nulle e bianche [1.265.171]), la lista che trionfasse al primo turno raggiungendo la suddetta soglia, guadagnerebbe un premio di maggioranza con il consenso di solo il 29% del corpo elettorale.

I disegni legislativi approntati in questo quinquennio da governi di nominati, e questo Napolitano lo sa molto bene, hanno avuto un precipuo scopo, riportare allo Stato centrale tutti i poteri e relativi capitoli di spesa che in questi anni sotto la pressione di movimenti dal basso e per l’azione di uno specifico partito politico (Lega Nord) erano stati trasferiti ai cosiddetti enti locali territoriali.

L’eliminazione del principio di competenza legislativa concorrente delle regioni con il ritorno in capo allo stato di tutta una serie di competenze esclusive2, e il declassamento delle province a semplici enti territoriali non più previsti dalla costituzione, così com’e stato formulato e licenziato dal governo Renzi il nuovo Titolo V (ex art.117 Cost.), risponde perfettamente alla volontà della lobby europeista che ha come obiettivo dichiarato impadronirsi delle istituzioni democratiche per svuotarle e procedere all’implementazione di uno Stato “guardiano notturno” o “ultra-minimo”, secondo la concezione di Noozky e Von Hayek, che sia deputato a poche attività e compiti, quali garantire il diritto di proprietà, assicurare il funzionamento di un mercato deregolamentato, delegare i servizi sociali gratuiti a istituzioni umanitarie religiose e laiche, funzionanti però sempre secondo i principi del laissez fare, e soprattutto affermare il valore intrinseco delle libertà negative (fuori dallo Stato) che trovano la loro sublimazione nel libero scambio, perché tutto deve avvenire nel mercato, niente fuori dal mercato e nulla contro il mercato. È in virtù di questa teorizzazione anarco-capitalista che si possono e si devono salvare i principali attori economici (vedi le operazioni LTRO e TLTRO della BCE di Draghi a favore delle istituzioni creditizie, il decreto salva-banche del governo Renzi e il “Big too fail” previsto dal “Piano Paulson” durante la presidenza di George W. Bush) mentre si devono lasciare alla povertà, alla fame e all’assenza di cure sanitarie milioni di cittadini ed esseri umani. La credenza nel mercato è non solo laicamente religiosa e assiomatica ma anche anticonsequenzialistica, cioè non valutabile in termini pratici con riferimento alle conseguenze sul benessere o l’efficienza della collettività, né in termini etici, perché è causa incausata e principio indiscutibile, è l’unico Dio coerente con la tutela dell’eguale libertà negativa degli individui. Si intuisce quale sia il pericolo imminente, il prodursi della dolce morte della democrazia senza guerre né bombe, ma come un batterio nel suo organismo che dall’interno la sta conducendo alla morte.

.

Post a comment