
Definisci bambino, disegno veloce su carta, Mary Blindflowers©
L’illusione salvifica di Greta
Mary Blindflowers©
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La figura di Greta Thunberg si è imposta, nel corso degli ultimi anni, come simbolo globale della lotta contro il cambiamento climatico. Tuttavia, al di là dell’indubbia forza comunicativa e della sincerità personale che molti le riconoscono, la sua immagine pubblica appare come un dispositivo più complesso: un archetipo mediatico che riproduce, sotto forma di moralità e idealismo, i medesimi rapporti di potere che dichiara di voler superare. In questa prospettiva, Thunberg diventa una “figura spettacolare integrata” (Guy Debord), cioè una rappresentazione che, pur nata in opposizione al sistema, viene immediatamente inglobata dal suo linguaggio e dalle sue logiche di visibilità. Il fenomeno Thunberg, dunque, non è tanto un caso individuale quanto uno schema simbolico e sociale, in cui la tensione tra ricchezza e povertà, tra potere e impotenza, viene risolta attraverso la rappresentazione anziché attraverso la trasformazione.
Ogni società produce i propri redentori, e spesso li sceglie tra coloro che possono permettersi di salvarla. Come osservava Pierre Bourdieu, il potere simbolico non consiste solo nella possibilità di dire qualcosa, ma nel diritto di essere ascoltati: un privilegio che appartiene alle classi in grado di controllare i mezzi di produzione del discorso. La storia della cultura occidentale è costellata di figure che, pur opponendosi al sistema, ne hanno condiviso le risorse, la visibilità e il linguaggio. Greta Thunberg non sfugge a questa dinamica: il suo messaggio nasce in un contesto di benessere, alfabetizzazione, ricchezza e accesso ai media. Il potere di parola, in questo caso, non è un atto rivoluzionario, ma un privilegio consentito, un discorso che il sistema accoglie perché non ne mina le fondamenta economiche. In tal senso, l’ambientalismo mediatico rappresenta una ribellione compatibile, capace di produrre indignazione e consenso senza intaccare i meccanismi di produzione e disuguaglianza che sostengono il modello di sviluppo contemporaneo. La ribellione, direbbe Gramsci, è “organica” al sistema quando non genera un nuovo blocco storico, ma conferma l’egemonia culturale di quello esistente.
Il vero paradosso di questo schema risiede nella posizione del pubblico, e in particolare di quella parte di società che potremmo definire “il povero”, nel senso più ampio del termine: chi non possiede i mezzi per incidere sulle strutture economiche e comunicative del mondo. A questo soggetto non è affidato il compito di agire, ma di credere: egli deve schierarsi, condividere, applaudire, litigare sui social in stile pollaio, ma non ha accesso agli strumenti che permettono un cambiamento reale. La sua partecipazione è ridotta a gesto simbolico, a consumo emotivo di una causa presentata come universale ma gestita da élite culturali ed economiche. Boltanski e Chiapello, ne Lo spirito del nuovo capitalismo, hanno mostrato come la critica sociale venga costantemente assorbita dal sistema e trasformata in nuova legittimazione morale. L’adesione “acritica” diventa così una forma di delega: il povero, anziché essere abilitato a trasformare la realtà, viene educato a riconoscere la propria impotenza come virtù, trasformando la coscienza in spettacolarizzazione. Un esempio significativo lo si trova nelle esperienze della cosiddetta Flotilla per Gaza: una missione umanitaria internazionale che si presentava come gesto radicale di rottura ma che, a ben vedere, era composta in larga parte da attivisti di ceto medio, intellettuali, professionisti, rappresentanti di associazioni con solide reti sociali e culturali, dunque tutt’altro che “poveri” o marginali. La loro azione, pur rischiosa e degna di attenzione politica, conferma che la possibilità di esporsi mediaticamente, di “sfidare il potere” e di ricevere ascolto, rimane prerogativa di chi dispone già di capitale sociale e culturale. Il povero, invece, resta spettatore, destinatario simbolico della missione, non protagonista reale.
L’immagine di Greta Thunberg funziona come una sorta di sacerdotessa laica della speranza collettiva: dà voce al desiderio di salvezza senza mettere in discussione chi detiene le risorse per realizzarla. In termini antropologici, potremmo dire che incarna una figura di mediazione simbolica, che collega il dolore collettivo al linguaggio del potere, mantenendo entrambi in equilibrio. Come osservava Debord, la società dello spettacolo non reprime la protesta, ma la rappresenta: la trasforma in immagine, la disinnesca attraverso la visibilità. L’effetto è quello di una grande pacificazione emotiva: la coscienza pubblica si sente rappresentata, ma non trasformata. Il movimento che avrebbe dovuto essere originato “dal basso” si trasforma in rito condiviso di espiazione, dove il cambiamento non è politico ma estetico: si manifesta attraverso gesti, slogan e immagini, piuttosto che attraverso la redistribuzione di potere e mezzi. In questo senso, la protesta diventa estetizzazione del conflitto, come già temeva Walter Benjamin, e la rivoluzione si traduce in linguaggio.
Se l’obiettivo è davvero “salvare il mondo”, la questione non è tanto chi lo predichi, quanto chi ne abbia la possibilità concreta. Fornire al povero i mezzi per salvare se stesso significa riconoscere la sua competenza, la sua capacità di generare soluzioni e non solo consenso. Un autentico ambientalismo, o più in generale un’autentica etica del futuro, dovrebbe dunque rompere il monopolio morale delle classi agiate e restituire dignità ai soggetti marginali. Ciò comporterebbe, inevitabilmente, il crollo di molti “santi” del nostro tempo: tanto quelli della destra tradizionalista, quanto quelli del radical chicchismo progressista. Entrambi, seppur in modi diversi, si nutrono dello stesso sistema di ruoli: chi comanda, chi crede, chi obbedisce. Solo restituendo voce e potere a chi ne è privo si potrà passare da una ecologia della colpa a una ecologia della responsabilità condivisa, in cui il riscatto non sia un privilegio ma un diritto.
Il problema, dunque, non è Greta Thunberg o la Flotilla che parte conoscendo l’inutilità del viaggio in termini di aiuto concreto, atto politico più che umanitario, ma il modo in cui il mondo ha bisogno di questi personaggi. La figura di Greta e di altri attivisti, mostra che la società contemporanea preferisce affidarsi a simboli di purezza piuttosto che affrontare la complessità del cambiamento reale. Ha ragione Slavoj Žižek, l’attivismo morale contemporaneo non mette mai veramente in crisi il capitalismo, ma lo accompagna, fornendogli un volto compassionevole. La sfida vera non è idolatrare o distruggere il simbolo, ma smascherare la logica che lo produce: quella per cui il privilegio si traveste da sacrificio e la redenzione diventa spettacolo, mentre il povero resta povero, e un bambino che ha fame continua ad avere fame.
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DESTRUTTURALISMO Punti salienti

