Le piazze dell’Occidente

Le piazze dell'Occidente

Le piazze dell’Occidente

 

Le piazze dell'Occidente

Le piazze dell’Occidente

 

Le piazze dell’Occidente

Giuseppe Ioppolo©

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Le piazze dell’Occidente si stanno risvegliando. Da Roma a Milano, da Parigi a New York, si moltiplicano cortei, sit-in e assemblee spontanee che sfidano il silenzio istituzionale e l’indifferenza mediatica. Queste manifestazioni, spesso etichettate come “pro-Palestina”, rivelano in realtà un moto più profondo: una denuncia collettiva contro l’ingiustizia sistemica, l’ipocrisia democratica e il fallimento storico del modello liberista. Il giornalismo mainstream, troppo spesso prono al potere, osserva con inquietudine questo risveglio. Ma cosa c’è davvero dietro? Le piazze non sono semplici luoghi di protesta, ma spazi di coscienza politica. I giovani che le animano non si limitano a contestare un singolo conflitto, bensì mettono in discussione l’intero impianto dell’ordine internazionale, denunciando complicità istituzionali e ingiustizie strutturali. La rabbia che si esprime non è cieca, ma lucida. È il frutto di una generazione cresciuta nella cultura democratica, che ne conosce le contraddizioni e rifiuta di restare in silenzio. I figli dell’immigrazione, spesso marginalizzati, si rivelano protagonisti critici e consapevoli, capaci di trasformare il disagio in protesta civile e proposta costruttiva. Il modello di integrazione euro-occidentale mostra le sue crepe: ha chiesto assimilazione invece che dialogo, obbedienza e non coscienza critica. Le piazze pongono una domanda urgente: siamo davvero disposti ad ascoltare le nuove generazioni?

In prima fila ci sono giovani che rifiutano la narrazione dominante, che non si accontentano di versioni semplificate del conflitto mediorientale, né di altri conflitti a noi vicini (Russo-Ucraino in primis), che chiedono verità, giustizia, responsabilità. E non è certo un discorso di verità invitare a lottare per un approdo in medio oriente che riconsegni alle mai sopite mire colonialiste UK, la ricostruzione di Gaza.

Il linguaggio del dissenso può disturbare, ma non va confuso con l’odio. È il linguaggio della verità nuda, che smaschera il fallimento del capitalismo aggressivo e l’ossificazione delle istituzioni. Dopo decenni di politiche liberiste, la giustizia sociale è evaporata, mentre milioni di cittadini faticano a mettere insieme il pranzo con la cena.

Ai margini delle manifestazioni si sono verificati episodi di violenza gratuita, lontani anni luce dallo spirito pacifico della maggior parte dei partecipanti. Nessuno può giustificare questi atti che, inevitabilmente, macchiano e danneggiano il significato profondo delle proteste. Rompere una vetrina non è mai un gesto rivoluzionario.

Chiediamo dunque alle autorità competenti – forze di polizia e ministro dell’Interno – di avviare le indagini necessarie per identificare e isolare i responsabili, mettendoli nelle condizioni di non nuocere più. Allo stesso tempo però ci interroghiamo se, sul piano della prevenzione e vigilanza, sia stato fatto tutto il possibile per evitare tali esplosioni di violenza. Oppure se, in realtà, sia esistito un pericoloso “lasciar fare”: un atteggiamento che non ha visto né sentito, forse perché non ha voluto vedere e sentire, i violenti intenti a organizzare provocazioni. Se l’intero apparato mediatico mainstream, davanti a imponenti cortei pacifici, non ha colto altro che questi episodi, il sospetto che volesse proprio soffermarsi su questo aspetto è più che legittimo, rafforzato da una lunga storia di infiltrazioni e inquinamenti nelle istituzioni da parte delle forze più oscure e retrive che si oppongono a qualsiasi cambiamento di rotta. Criminalizzare queste manifestazioni significa criminalizzare la coscienza civile. Ridurre tutto a “guerriglia urbana” è una semplificazione pericolosa, che rivela la cattiva coscienza dell’establishment. La maggior parte dei cortei è pacifica, determinata, animata da un profondo senso di giustizia. Chi ha sostenuto leggi ingiuste, chi ha banchettato con banchieri e trafficanti d’armi, non può oggi ergersi a custode della democrazia. Difendere la libertà di espressione significa accettare anche le voci scomode, quelle che mettono in discussione l’ordine costituito.

Le piazze non sono un pericolo: sono il termometro della democrazia. Se si infiammano, è perché qualcosa brucia sotto la superficie. La risposta non può essere la repressione, ma l’ascolto. Serve coraggio politico, serve una visione inclusiva, capace di accettare il conflitto come parte del processo democratico. Altrimenti, si rischia di alimentare proprio quel rancore che a parole, si afferma di voler evitare.

La domanda che resta sospesa è semplice quanto urgente: fino a quando il potere politico continuerà a ignorare le voci che chiedono giustizia, pace, libertà, diritti? Solo accogliendole, riconoscendole e dialogando con esse, le piazze potranno tornare a essere il cuore pulsante della democrazia.

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