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La banalizzazione della poesia
Fluò©
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La poesia non vende, così dicono gli esperti del settore e tutti gli altri ripetono. A questo punto c’è da domandarsi quale poesia, dal momento che tutti scrivono poesie ma di poeti ce ne sono ben pochi.
È possibile improvvisarsi muratori se non si neppure impastare la calce? Oppure coltivare patate se non si sa neppure in quale stagione si piantano? Fare gli antiquari se non si distinguono una settecentina da una ristampa anastatica? Non penso, allora per quale curioso motivo gente che non ha mai aperto un libro in vita sua, scrive poesie? Tutti si improvvisano poeti, pensando che tanto, una poesiola la possono far tutti.
La banalizzazione della poesia è un problema antico. Giovenale, Leopardi, Baudelaire, Pound e tanti altri, ci illuminano sul fenomeno.
Un poeta reinventa il mondo, un banalizzatore ripete a pappagallo quello che già è stato detto confidando sul fenomeno imprinting, ossia sul fatto che la mente umana, specie se di scarsa intelligenza, percepisce come familiari ritmi già sentiti e perciò se ne sente confortata, mentre l’inusuale, lo sperimentale, è, in ogni campo, difficile da introiettare, richiede uno sforzo critico in più che le menti comuni non riescono a sopportare, specie se sono stordite e distratte da una propaganda martellante. La poesia sperimentale per molti è come un virus a cui occorre ribellarsi, per adagiarsi mollemente sul sicuro. L’arte però non è mai sicurezza, se lo fosse smetterebbe di essere arte, per diventare replica di una bellezza preimpostata e fittizia tipica di una società escrementizia dell’usa e getta che ricicla gli stessi concetti reiterati all’infinito, con l’aiuto del marketing ossessivo e pilotato dal denaro.
La banalizzazione della poesia possiamo vederla ovunque. Chiunque scrive poesie. Un tempo si diceva a scuola ai bambini di scrivere una poesia, inculcandogli l’idea che chiunque possa farlo. E poi si mandavano poesie a memoria, non si sa bene perché e a che scopo. Non si procedeva alla disamina critica ma alla ripetizione pappagallesca e tormentosa di un testo accreditato, così la poesia subiva una doppia brutalizzazione, diventava cioè o un esercizio scolastico fine a se stesso, oppure una pratica mmenonica senza significato, svuotando di senso ogni senso. E sulla scia di questi meravigliosi quanto vuoti insegnamenti, i giovani di un tempo, ormai vecchi, quelli che imparavano poesie a memoria a scuola, oggi pensano di scrivere parole a casaccio e mandarle a capo, secondo un principio di falsa democrazia depressiva, secondo il principio che nessuno sappia esattamente cosa sia la poesia, quindi diventa tuttologia applicata al nulla. Ora finché la signora Pinka Pinkella e il signor Vattelapesca, tanto buoni tanto belli che dicono di metterci la faccia e scrivono due versi abborracciati e appiccicati con lo sputo, danno alle stampe pagando il loro fantastiglioso libro di ciofeche che si compreranno i loro parenti, il fenomeno è fastidioso per modo di dire. La banalizzazione rimane circoscritta nel mondo del ridicolo. Saranno in molti a dire: “poveretti, lasciamoli sfogare, se sono contenti così, che male fanno?”
A parte intasare il mercato di libri inutili, nulla.
Il problema si pone quando Vattelapesca e Pinka Pinkella riescono, tramite conoscenze oppure pagando i grossi editori, a diventare poeti laureati e a diffondere l’idea che quello che scrivono sia poesia e che basti dire Cedi la strada agli alberi, della corte dei miracoli, per fare cultura.
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DESTRUTTURALISMO Punti salienti