Lewis Carroll, Alice, cenni

Lewis Carroll, Alice, cenni

Lewis Carroll, Alice, cenni

Lewis Carroll, Alice, cenni

Un’edizione contemporanea di Alice, credit Antiche Curiosità©

 

Lewis Carroll, Alice, cenni

Mary Blindflowers©

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Le favole celano significati non sempre espliciti. Vuoi per un motivo o per l’altro, gli autori rendono spesso enigmatico ciò che non può essere espresso in forma diretta e immediata, ma il fascino della fiaba è proprio il lato oscuro, il simbolo che veicola sensi arcani e non immediatamente percepibili.
Di base le fiabe sono destinate ad un pubblico di bambini, ma nella realtà sono scritte da adulti per gli adulti.
Quando non tutto viene compreso, soprattutto perché non lo si vuole capire, i commentatori si limitano a fare il riassunto della fiaba, parlando genericamente di non-sense o inventandosi di sana pianta dei significati utili per sostenere tesi insostenibili o per cianciare su similitudini inverosimili.
L’elenco di castronerie accademiche e non su Alice’s Adventures in Wonderland, pubblicata per la prima volta nel 1865, è lungo. Alcuni hanno interpretato il testo come un trip indotto da sostanze stupefacenti, altri hanno parlato di crisi identitaria della bambina protagonista che ricercherebbe se stessa, e non è mancato chi ha sostenuto, che si tratterebbe di un romanzo sulla crescita o chi ha accostato addirittura Carroll a Pascoli:

Pascoli e Carroll, insofferenti ed estranei nei confronti del mondo cui appartengono, reagiscono a tale situazione in due modi: il primo consiste nell’attribuire alla propria scrittura un ruolo sociale; il secondo verte nella costruzione di un mondo proprio in cui evadere, frutto della fantasia, dove poter tornare fanciulli 1.

Un poco riduttivo il parere su un Carroll che vorrebbe solo farci tornare fanciulli. E sinceramente l’accostamento con Pascoli, per non parlare di altri autori citati, addirittura D’annunzio, è del tutto inopportuno e forzato.

In genere si dà parecchia importanza ai temi accessori della favola, come guardare il dito e non vedere il cielo, ossia quei temi innocui in cui il principio base dovrebbe essere il solito conosci te stesso, l’edificante processo di maturazione di una bimba, etc.
Alice nel Paese delle meraviglie è invece un romanzo-favola di profonda critica sociale e politica al sistema monarchico vittoriano.
I personaggi non sono scelti a caso, ma hanno un significato sociale che parla attraverso metafore e bizzarrie apparentemente senza nessi logici.
Alice non si limita a interrogare se stessa, a mangiare qua e là pezzi di fungo e varie sostanze, diventando piccola o enorme, variando le proporzioni del suo corpo fino all’allungamento del collo, così, tanto per divertire chi legge. Le metamorfosi sono seguite da dialoghi e azioni che tradiscono una piccola rivoluzione, spacciata per involontaria, come quando Alice butta a terra i giurati durante un assurdo processo, perché è cresciuta a dismisura, quindi basta un lembo della sua veste per rovesciare il banco dei giurati e spedirli a capofitto tra la folla (Cap. XII). Segno evidente della fragilità intrinseca del sistema giudiziario, basta un nonnulla e va tutto all’aria. Ovviamente tutto il processo è una farsa, una parodia della giustizia vittoriana, così come una parodia della regina Vittoria è quella regina di cuori che vuole tagliare la testa a tutti, indiscriminatamente e senza alcuna ragione apparente, ancor prima della sentenza, solo che alla fine nessuno è mai giustiziato, quindi il potere monarchico viene minimizzato e rovesciato in un nulla di fatto. E Alice non è la dolce e inconsapevole Dorothy del mago di Oz, ma ha una personalità più spiccata, tant’è che risponde alla Regina di star zitta.

“Stuff and nonsense!”, said Alice loudly. “The idea of having the sentence first!”
“Hold your tongue!”, said the Queen, turning purple.
“I won’t!”, said Alice. (Cap. XII).

Alice sa, e ce lo dice, che in fondo, tutta la corte si riduce a un mazzo di carte. Ogni capitolo è una satira allucinata e meravigliosa contro il potere monarchico vittoriano nei suoi vari aspetti. Non viene risparmiata neppure l’ora del the, che è tipicamente inglese e durante la quale i non-sense servono puramente a sottolinearne la ridicolezza, a esaltare il patetico finto perbenismo di una società bene impegnata in altrettanto ridicole conversazioni oziose.
E il cappellaio è matto perché rappresenta i tipici operai che lavoravano nelle fabbriche vittoriane che producevano appunto, cappelli e venivano a contatto con sostanze molto tossiche come piombo e mercurio che provocavano, tra le altre cose, derealizzazione, perdita di memoria e disturbi fisici oltre che mentali, nonché in parecchi casi, perfino la morte.
Che si tratti di un operaio e non di un nobile, lo si evince da una frase che il personaggio reitera sul banco dei testimonia: “I’ m poor man”. Poi quando il re gli dice di togliersi il cappello, risponde che non è suo. Il re stoltamente replica che allora lo ha rubato e il cappellaio risponde che non ne ha nemmeno uno, dato che li vende, essendo un cappellaio:

“Take off your hat,” the King said to the Hatter.

“It isn’t mine,” said the Hatter.

“Stolen!” the King exclaimed, turning to the jury, who instantly made a memorandum of the fact.

“I keep them to sell,” the Hatter added as an explanation; “I’ve none of my own. I’m a hatter.”

Here the Queen put on her spectacles, and began staring at the Hatter, who turned pale and fidgeted. 

“Give your evidence,” said the King; “and don’t be nervous, or I’ll have you executed on the spot”… (continua su Destrutturalismo n. 8, Novembre 2024).

 

1 B. Oddi, Alice nella letteratura italiana del Novecento, tesi di laurea, p. 20 ( link)

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DESTRUTTURALISMO Punti salienti

Libri Mary Blindflowers

 

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