Angelo Giubileo©
Pirandello: “pagliacciate, pagliacciate, pagliacciate!”
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Pirandello? Un fascista! Ma, allora, com’è che gli fu assegnato il premio Nobel per la letteratura nel 1934? Unicamente, come recita il testo, “per il suo ardito e ingegnoso rinnovamento dell’arte drammatica e teatrale”. Capisco, ma purtroppo a scuola si dice nulla o così poco di lui, a differenza, ad esempio, di un Manzoni che, sia detto inter nos, non ha senz’altro nulla più da dire o comunque da insegnare sia ai vecchi che ai giovani.
Incuriosito, leggo che il figlio Stefano ha narrato un aneddoto del padre, nella sua casa di via Bosio in Roma, allorché ricevette la notizia del conferimento del Nobel: “Si precipitano fotografi e cinematografisti, che chiedono al Maestro di farsi riprendere curvo sulla macchina da scrivere, piazzata su un minuscolo tavolino. Sul foglio Pirandello scrive a ripetizione <pagliacciate! pagliacciate! pagliacciate! …> otto righe consecutive di <pagliacciate!>, minuscolo e punto esclamativo”[1].
Quante volte, senza carpirne mai il vero senso, ho sentito parlare di quei suoi Sei personaggi in cerca di autore. Ritenendo, secondo il comune buon senso, che si trattasse di personaggi privi di una sostanziale identità propria e quindi sempre alla ricerca di qualche autore che, rappresentandoli, desse loro vita. Ma non era e non è così.
Nella Prefazione dell’Autore al testo, si legge che: “Senza volerlo, senza saperlo, nella ressa dell’animo esagitato, ciascun d’essi, per difendersi dalle accuse dell’altro, esprime come sua viva passione e suo tormento quelli che per tanti anni sono stati i travagli del mio spirito: l’inganno della comprensione reciproca fondato irrimediabilmente sulla vuota astrazione delle parole; la molteplice personalità d’ognuno secondo tutte le possibilità d’essere che si trovano in ciascuno di noi; e infine il tragico conflitto immanente tra la vita che di continuo si muove e cambia e la forma che la fissa, immutabile”[2].
Spirito e natura, rappresentazione e vita, tanto che “c’è un personaggio – scrive sempre Pirandello nella sua Prefazione -, quello della Madre, a cui invece non importa affatto aver vita, considerato l’aver vita come fine a se stesso (…) Infatti la sua parte di Madre non comporta per se stessa, nella sua <naturalità>, movimenti spirituali; ed ella non vive come spirito…”. A differenza degli altri personaggi.
Nel testo, è presente un dialogo serrato tra il Padre e la Figliastra, dialogo interrotto quasi sempre dal Capocomico che deve dare vita ai personaggi. Pirandello scrive che ciascuno dei quattro personaggi parlanti – Padre, Madre, Figliastra e Figlio – figurano “l’espressione del proprio sentimento fondamentale”, che rispettivamente è il rimorso, il dolore, la vendetta e lo sdegno.
E tuttavia, nella maniera suddetta non è possibile che i personaggi e noi con loro intendiamo e facciamo in qualche modo ritorno a quello “stato di natura” che nulla ha a che fare con la rappresentazione finanche nostra e di noi stessi.
Un tempo, tutto il nostro mondo ruotava intorno all’immagine della Madre, la Mater Matuta. Reale più di ogni altra immagine rappresentativa, ma pur essa ridotta in fine a icona. Causa della causa, la Madre era fondamento del diritto, in tal caso uterino. Prima che il Padre prendesse il suo posto ed eretto così a fondamento del diritto agnatizio, appartenente al primogenito così come “dio Maschio Prode Rapido Impetuoso, raffigurato sulla carta moneta giapponese, uccisore del Serpente Ottoforcuto”[3].
E dunque, anche la Madre di Pirandello è in cerca di un autore che, come il Maestro stesso dice, “le faccia rappresentare una scena col Figlio, nella quale metterebbe tanta della sua propria vita; ma è una scena che non esiste, che non ha mai potuto, né potrebbe, aver luogo. Tant’ella è incosciente del suo esser personaggio, cioè della vita che può avere, fissata e determinata tutta, attimo per attimo, in ogni gesto e in ogni parola”[4].
E allora, ritorna la questione dello “stato di natura” di cui detto. Questione che non si risolve nel personaggio del Padre, e, per contrasto, come detto, non può quindi risolversi nel personaggio della Figliastra, ma non si risolve dunque nemmeno nel personaggio della Madre. Non resta allora che la speranza del Figlio.
Il Figlio è refrattario a ogni rappresentazione, perfino della propria stessa immagine: “… Le par possibile (in risposta al Capocomico-Autore) che si viva davanti a uno specchio che, per di più, non contento d’agghiacciarci con l’immagine della nostra stessa espressione, ce la ridà come una smorfia irriconoscibile di noi stessi?”[5]. Altro che Dioniso, chi è questo nuovo Figlio dell’Uomo?
La risposta del testo: “Feci per accostarmi; e allora …”. Prorompe il fatto. Si legge in conclusione alla Prefazione: “… questo fatto è ricordato dal Figlio nella successione materiale dei suoi momenti, privo di qualunque senso e perciò senza neanche bisogno della voce umana, s’abbatte bruto, inutile, con la detonazione d’un’arma meccanica sulla scena, e infrange e disperde lo sterile tentativo dei personaggi e degli attori, apparentemente non assistito dal poeta”[6]. Un altro poeta, Paul Valery, avrebbe parimenti commentato: le grand don de ne rien comprendre à notre sort.
[1] G. Riotta, Un filosofo a ore, minuscolo e punto esclamativo, 2021
[2] L. Pirandello, Sei personaggi in cerca d’autore, ed. Universale Economica Feltrinelli, 2021.
[3] G. de Santillana – H. von Dechend, Il mulino di Amleto, ed. Adelphi 2000.
[4] Prefazione, Sei personaggi in cerca d’autore, ed. Universale Economica Feltrinelli, 2021.
[5] L. Pirandello, Sei personaggi in cerca d’autore, ed. Universale Economica Feltrinelli, 2021.
[6] Prefazione, Sei personaggi in cerca d’autore, ed. Universale Economica Feltrinelli, 2021.
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