Sovrabbondanza descrittiva? No, grazie

Sovrabbondanza descrittiva? No, grazie

Sovrabbondanza descrittiva? No, grazie

Sovrabbondanza descrittiva? No, grazie

Abiti di scena, credit Mary Blindflowers©

 

Mary Blindflowers©

Sovrabbondanza descrittiva? No, grazie

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Di recente ho letto ben due testi di narrativa afflitti da ciò che potrei definire incurabile descrittivismo disfunzionale, pesante eredità ottocentesca veramente dura a morire.
In parole semplici le descrizioni, anziché aiutarci a comprendere lo sfondo in cui agiscono i personaggi o il loro stato d’animo, sono semplici esercizi di stile, una specie di strizzatina d’occhio dell’autore abbastanza convinto di sé che dice implicitamente al lettore: hai visto come sono bravo? La presunta bravura consisterebbe in pagine e pagine di descrizioni, in cui lo scrittore ci dice anche di che colore sono gli stipiti delle porte, la suola delle scarpe dei passanti o gli interstizi tra una mattonella e l’altra di un luogo appena citato e ininfluente, indulgendo a una minuzia che sa di eccessiva tendenza al controllo, di pignoleria scialata sulla pagina per fracassare le meningi al lettore che, subissato da una marea di particolari insignificanti e non funzionali né alla trama né ai personaggi, ha due strade, o buttare il libro dalla prima finestra disponibile, oppure continuare masochisticamente a leggere, facendosi coraggio, magari saltando qualche pezzo più che pleonastico, e cercando di recuperare il cadavere della trama dal mare magnum descrittivo.
Il troppo decisamente stroppia, come dicono quelli che parlano bene. Il guaio è che questa tendenza all’eccesso, assai di moda oggi presso certe scuole di scrittura creativa, nasconde sia trame veramente deboli, sia personaggi senza spessore alcuno. Ma se la trama non c’è, perché cercare di nascondersi dietro un dito?
Anche in Joyce le trame non sono esaltanti, praticamente non ci sono, però, siccome Joyce sa quel che fa, non cerca di nasconderlo, anzi esalta l’assenza di trama, attraverso descrizioni che sono prettamente funzionali e ai personaggi e al testo. Facciamo un esempio:

La sua immagine m’accompagnava anche nei luoghi meno propizi al romanticismo. Il sabato sera quando la zia si recava al mercato, ero costretto ad andare con lei per aiutarla a portare i pacchi. Si camminava per le strade illuminate fra gli spintoni degli ubriachi e delle donne che contrattavano, fra le bestemmie degli operai, le stridule tiritere dei garzoni a guardia dei barili di carne salata e le nenie nasali dei cantastorie che declamavano inni su O’ Donovan Rossa o ballate sulle agitazioni del nostro paese. Tutti rumori che per me convergevano in un’unica sensazione di vita: immaginavo di recare il mio calice frammezzo a una folla di nemici… (James Joyce, Arabia, in Gente di Dublino, Einaudi, 1960).

 

Qui Joyce crea movimento attraverso una descrizione semplice, di immediata percezione oserei dire visiva che è però perfettamente in sintonia con l’interiorità del personaggio. Si tratta di un descrittivismo lampo perfetto, non è slegato dal testo, dal personaggio o dalla trama, ma ben amalgamato in un impasto riuscitissimo da un punto di vista narrativo. L’autore infatti riesce a creare in poche righe una specie di sospensione, percepibile anche e soprattutto attraverso il dualismo a contrasto tra il personaggio e la folla, descritta come estranea e nemica nel flusso di coscienza del protagonista.
La descrizione così diventa un potente mezzo espressivo che ha il compito di veicolare una sensazione, non è un semplice ornamento da scrittore compiaciuto di sé o che deve dimostrare qualcosa al lettore ma una funzione in accordo con l’essenza del testo stesso.
In Evelyn, questo modo di procedere, è ancora più evidente:

 

La sua casa! Si guardò attorno nella stanza fissando ad uno ad uno gli oggetti familiari che in tutti quegli anni aveva spolverato regolarmente una volta a settimana, domandandosi sempre da dove poteva venire tanta polvere. Forse non li avrebbe più visti quegli oggetti, dai quali mai aveva immaginato di doversi separare un giorno. Nonostante ne fosse passato del tempo, ancora non era riuscita a sapere il nome del prete la cui fotografia ingiallita pendeva dalla parete sopra l’harmorium scordato, accanto alla stampa a colori dei voti dedicati alla beata Margherita Maria Alacoque…

 

Qui la polvere è veicolo di una paralisi, l’evidenza di uno status quo che non cambia, nonostante le migliori intenzioni di Evelyn che aspira al movimento ma è paralizzata nella stasi. Joyce dà due pennellate descrittive che dicono tutto. Non ha bisogno di pagine di descrizione per farci capire come si sente il personaggio.
L’effetto devastante di un tempo che non sembra muoversi, è segnalato proprio dalla descrizione di quei pochi oggetti citati, la foto ingiallita, l’harmorium e una stampa devozionale che vanno tutte nella stessa direzione di una tradizione religiosa bigotta e incatenante che ancora la protagonista al posto dove è nata e le impedisce di spiccare il volo della modernità e della libertà. Un potente contrasto tra passato che lega, futuro che non c’è e presente in totale paralisi, narcotizzato tra realtà e possibilità.

La sovrabbondanza descrittiva dunque non occorre.

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Comment (1)

  1. Mariano Grossi

    Io mi chiudo a riccio e arROCCO
    se descrivi da pitocco
    e il racconto non si ascolta
    fa la deiezione sciolta,
    al narrato non do mancia!
    Provo solo mal di pancia!
    Atmosfera colma a iprite!
    Preferisco altre PARTITE!!!

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