Quaderni di Serafino Gubbio

Quaderni di Serafino Gubbio

Quaderni di Serafino Gubbio

Quaderni di Serafino Gubbio

Quaderni di Serafino Gubbio, credit Antiche Curiosità©

 

Mary Blindflowers©

Quaderni di Serafino Gubbio operatore

 

Pirandello pubblica i Quaderni di Serafino Gubbio operatore, per la prima volta nel 1915, a puntate sulla Nuova Antologia e l’anno successivo coi Fratelli Treves con il titolo Si gira… Mondadori nel 1925 darà alle stampe una versione riveduta, cartoncino editoriale con tre cornicette rosse in prima di copertina e il costo di dieci lire stampato bello grande in alto a destra. L’ho letto in questa edizione.
Romanzo denso e interessante che affronta temi importanti. La bestia, l’uomo, la macchina, l’alienazione, il cinematografo e la morte, sono pilastri su cui si innestano dialoghi e situazioni. Ci troviamo di fronte a un romanzo filosofico contro-antropocentrico in cui la trama serve per comunicare al lettore un processo di costante disumanizzazione dell’uomo contemporaneo, stordito dai ritmi allucinati e vertiginosi in cui anche lo svago diventa complicato come un lavoro:

 

Nessuno ha modo o tempo d’arrestarsi un momento a considerare, se quel che vede fare agli altri, quel che lui stesso fa, sia veramente ciò che soprattutto gli convenga, ciò che gli possa dare quella certezza vera, nella quale solamente potrebbe trovar riposo. Il riposo che ci è dato dopo tanto fragore e tanta vertigine è gravato da tale stanchezza, intronato da tanto stordimento, che non ci è più possibile raccoglierci un minuto a pensare. Con una mano ci teniamo la testa, con l’altra facciamo un gesto da ubriachi. – Svaghiamoci! – Sì. Più faticosi e complicati del lavoro troviamo gli svaghi che ci si offrono; sicché dal riposo non otteniamo altro che un accrescimento di stanchezza. (p. 4).

 

Serafino vive la sua vita come se fosse un prolungamento della manovella che fa girare, osserva gli altri ma si rende conto di essere a sua volta disancorato dalla realtà e di osservarsi da lontano, come se la sua vita non lo riguardasse. Critica il perbenismo, ne è inorridito, ma riconosce un fondo di malvagità negata in ogni uomo. Ciascuno pensa di essere buono e magari infelice per una serie di circostanze avverse e indipendenti dalla volontà, ma nessuno ammette la propria malvagità. Serafino, così come gli altri personaggi del romanzo, presentano uno stadio di alienazione tale da non riconoscere più se stessi. Si tratta di una spersonalizzazione a cui il progresso tecnologico contribuisce molto. A Gubbio viene affibbiato il nomignolo Si gira, per sancire la sua definitiva identificazione con il lavoro che fa, con la macchina che fa girare, quella macchina che ha la voracità della bestia, mentre la bestia vera, la tigre, che dovrà essere impiegata in un film, è forse l’unica vera innocente di tutta la storia. Le pellicole sono vermi solitari che mangiano la vita che non è più nemmeno vita, ma un simulacro: “Siamo come in un ventre, nel quale si stia sviluppando e formando una nuova gestazione meccanica”.
Le storie individuali dei personaggi che ruotano attorno al cinematografo e all’operatore, denunciano l’assurdità dei rapporti umani. C’è un degrado, una miseria esistenziale che raggiunge toni ridicoli nella parrucca di Cavalena, un autore schiavo della moglie e delle sue assurde crisi di gelosia, un probabile doppio di Pirandello stesso ma disegnato con tinte grottesche in cui tutto sembra amplificato per creare il senso del disfacimento, dell’inutilità innestata in un dramma familiare borghese.
Anche gli altri personaggi, legati tra loro da rapporti di fosco odio e amori intricati, appaiono in fin dei conti macchiette, marionette ingoiate dal movimento della manovella, di quella macchina fredda che mangia tutto, la vita e la morte, con assoluta indifferenza.
La dissoluzione finale in cui si riversa sul corpo tutta la mostruosità dell’alienazione e della decomposizione divorante dei rapporti sociali, è condensata in un pasto che è onnipresente nel romanzo. La macchina mangia, di continuo, non conosce sazietà. Il divoramento è il coronamento di una società che nuota nel nulla, composta di distorsioni, di estraneità totale perfino e sopratutto a se stessi. Gli attori e specialmente l’attrice Nestoroff, eternamente prigioniera del suo stesso corpo, rimangono come smarriti dalla propria immagine sullo schermo, sembrano non riconoscerla come propria. È un fuori di sé, una innegabile disfatta dell’uomo contemporaneo che nel baluginìo della modernità e nella frenesia dei suoi incanti, si perde per non ritrovarsi più.
Impossibile riassumere in poche righe la complessa profondità filosofica e antropologica di quest’opera pirandelliana che poi si inoltra nei sentieri della dualità femminile, nel doloroso rapporto che la donna ha con lo stereotipo costruito su di lei da altri e in cui finisce, suo malgrado, per identificarsi, infilandosi in una gabbia a specchi deformi.
Viene indagato anche il gap tra uomo e bestia, risolto a favore di quest’ultima. La tigre, costretta, suo malgrado a stare in gabbia, per un gioco stupido, per una pretesa antropocentrica senza senso, associata stupidamente alla donna, è forse l’unica a conservare la sua identità pur nell’infelicità della sua condizione di prigioniera. Tutti gli altri sono dispersi in luoghi estranei, in rapporti sfibranti e falsi, in una vita che è negazione di se stessa e in cui la deformazione del ridicolo è dietro l’angolo cieco di un sé atrofizzato.

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