Vittore Branca, Boccaccio Medioevale?

Boccaccio Medieovale?

Vittore Branca, Boccaccio Medioevale?

Boccaccio Medieovale?

Branca, Boccaccio Medioevale, Sansoni, 1970, credit Antiche Curiosità©

 

Mary Blindflowers©

Vittore Branca, Boccaccio Medioevale

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Vittore Branca, Boccaccio Medioevale, pubblicato da Sansoni negli anni 50 e poi ripubblicato negli anni sessanta e nel 1970 con una nuova edizione accresciuta. Bella carta a forte grammatura, copertina sul grigio. Branca è tuttora continuamente citato nelle bibliografie accademiche perché ritenuto “un sicuro punto di riferimento” per la conoscenza dell’opera di Giovanni Boccaccio.
Ottimo.
Leggo dunque 350 pagine di Branca, tutto Boccaccio Medioevale. E iniziamo dall’inizio. Il titolo già dà una indicazione della tendenza dell’autore alla semplificazione catalogante. Boccaccio è visto infatti come scrittore squisitamente medioevale, che esalta lo stilnovismo, la cortesia e naturalmente, i valori cattolici a cui Branca era visceralmente legato.
Ho letto con attenzione anche il Decamerone, tutto, dalla prima all’ultima riga, prima di leggere il testo di Branca, un saggio che ha un punto di vista totalmente falsato sul Certaldese, per vari ordini di motivi. Prima di tutto Boccaccio non può essere definito medioevale letterariamente parlando perché è un vero anticipatore che sfugge alle convenzioni della sua epoca. Già il solo fatto di dedicare l’opera alle donne non era affatto scontato nel Medioevo, inoltre egli non segue la morale cattolica, a differenza di quanto sostiene Branca, ma ha una sua filosofia della natura di stampo prettamente epicureo che sfugge totalmente all’impianto teologico dantesco. La cortesia e lo stilnovismo non vengono esaltati ma, al contrario, parodizzati di continuo attraverso una tecnica del rovesciamento, soltanto che Branca non sembra voler accorgersene ed estrapola le parti “cortesi” e “stilnoviste” del Decamerone, dimenticando di dire che poi ciò che sembra viene ribaltato. Per esempio, il monologo di Zima, che Branca descrive come esemplificativo di “alta devozione cavalleresca” in lode e amore alla donna, in realtà canzona i topos della lode amorosa che richiama, distorcendoli ed esagerandoli, parodizzando il metodo di Andrea Cappellano e della letteratura cortese, qui evidentemente distorta. Il dialogo non è infatti privo di una certa affettazione caricaturale che lo inserisce nel registro del comico oltre che dell’aegritudo amoris. Ma Branca sembra non rendersene conto.
Boccaccio ha superato abbondantemente l’etica angelicata e teologica di Dante, negandola, parodizzandola, felicemente, sensualmente superandola col realismo grottesco e ridicolizzandola nei suoi tratti essenziali, dando luce ad un Decamerone in chiave profondamente antistilnovista, anticortese, anticlericale e satirica, proponendo senza dare giudizi morali personali, la sua religione naturale in sostituzione di quella artificiale e soffocante della Chiesa cattolica. Egli oppone la sua donna carnale e tutta umana, alla donna angelicata di Dante e degli stilnovisti.
La critica accademica ha sempre trovato difficoltoso ammettere la parodizzazione di Dante nel Decamerone e ancora oggi si tende ad edulcorare molto il concetto, continuando a sostenere che la raccolta di novelle boccaccesche sia “stilnovista e cortese”.
Ma ecco un esempio. Sulla novella di Cimone, Branca scrive:

 

L’attenzione e l’ammirazione indugiano minutamente sui particolari fisici di quel bel corpo rilassato nel sonno: eppure non v’è moto di lascivia, ma solo il passare di quell’immagine dai sensi allo spirito a risvegliare nel bruto l’uomo e la sua gentilezza. C’è contemplazione, adorazione, rapimento oblioso, non concupiscenza avida: e il linguaggio lievissimo varia tra agiografiche preziosità etimologiche per i protagonisti, allusività stilnovistiche e dantesche… e riprese… dai romanzi cortesi…

 

In realtà Boccaccio motteggia sia la concezione cavalcantiana di amore come malattia, rovesciandola completamente e traducendola nella “guarigione” di Cimone, sia la versione spirituale di Dante, dato che Cimone ha un forte desiderio erotico di Ifigenia, sottolineato dal simbolo fallico del bastone e dallo sguardo che vaga dai capelli al corpo, in modo insistente: “E quindi cominciò a distinguere le parti di lei, lodando i capelli, li quali d’oro estimava, la fronte, il naso e la bocca, la gola e le braccia, e sommamente il petto, poco ancora rilevato…”
Come faccia Branca a cogliere soltanto preziosità e aderenze allo stilnovismo, io non so.
Siamo ben lontani dalla visione angelicata della donna che fa da tramite tra l’uomo e dio. La donna è “cosa”, “preda”, oggetto del desiderio, in cui la tematica cavalcantiana dell’amore oscuro, viene caricata di una comicità che grava di riferimenti sessuali anche la morte: “e per certo”, esclama Cimone, “io ti avrò o io morrò” .
Il possesso di cui parla Cimone non è affatto spirituale e non scaturisce da momentanea follia, ma da lucidità e da un piano ben concertato che non esclude la violenza e il rapimento.
Efigenia è la donna oggetto senza voce. La sua unica difesa è il pianto e il lamento proprio dell’infante. Cimone la rapisce e lei piange e lo maledice. La donna non ha voce in capitolo e finisce con lo sposare Cimone, ma delle sue preferenze nulla sappiamo. La donna non è un soggetto attivo e trasgressivo ma una bambola muta sottomessa alla bestialità maschile. È davvero difficile infatti cogliere in Efigenia un sia pur minimo consenso a tutto ciò che accade. Le frasi riprese da Dante non servono per esaltare la spiritualità di Cimone, ma per ridicolizzarlo, dato che in realtà il suo desiderio ha una potente carica di sensualità che Branca, da buon cattolico si affretta a negare.
Ma perché interpretare un testo secondo la propria religione e stravolgerne il senso?
A che scopo?
Forse la domanda è superflua se rivolta ad uno che ostentava il distintivo dell’Azione Cattolica. Era davvero troppo per lui ammettere un Boccaccio che parodizza l’impianto teologico dantesco. Ma tant’è il testo c’è, qui bello schietto e chiaro davanti a tutti coloro che vogliono leggerlo senza fidarsi degli accademici di parte, interpreti non sempre obiettivi e leali della nostra letteratura.

 

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