L’esperienza di Henry Alleg

L'esperienza di Henry Alleg

L’esperienza di Henry Alleg

L'esperienza di Henry Alleg

La foglia rosa, credit Mary Blindflowers©

 

Mary Blindflowers©

L’esperienza di Henry Alleg

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Henry Alleg, membro del Partito comunista algerino e dal 1950 al settembre del 1955, direttore di Alger républicain, quotidiano di opposizione, visse in clandestinità dal novembre 1956 al 12 giugno del ‘57, quando venne arrestato dai paracadutisti della decima D.P. e tenuto prigioniero per un mese ad El-Biar, un quartiere alla periferia di Algeri.
Il giornalista ha scritto un resoconto delle torture che dovette subire dai suoi stessi connazionali durante la guerra d’Algeria, che, come ha sottolineato Jean-Paul Sartre, non può essere umanizzata perché con la sua funesta forza corrosiva richiama l’odio razziale e due coppie indissolubilmente legate e tragicamente contrapposte: il colonizzato e il colono, rispettivamente vittima e carnefice.
La grande “colpa” di Alleg è stata quella di schierarsi dalla parte della vittime, riuscendo a sopportare le torture senza tradire i compagni:

 

Entrai, dietro a Cha … in una stanza, molto grande, del terzo, oppure del quarto piano: evidentemente, il “soggiorno” del futuro appartamento. Alcune tavole smontabili; al muro, le fotografie di sospetti ricercati dalla polizia; un telefono da campagna: l‘arredamento era tutto qui. Vicino alla finestra, un tenente. Seppi in seguito che si chiamava Ir… Un pezzo d’uomo, con un corpaccione smisurato rispetto al capo, piccolissimo, dagli occhi cisposi, e alla vocetta acuta che ne usciva, una voce un po’ melata e cantilenante, da chierichetto vizioso.
«Vi offriamo una possibilità», disse Cha…, rivolto a me. «Ecco matita e carta, ci scriverete dove abitate, chi vi ha ospitato durante la vostra clandestinità, chi sono le persone che avete incontrato, le attività da voi svolte».
Il tono restava corretto. Mi avevano tolto le manette. Ripetei per i due tenenti ciò che avevo detto a Cha… durante il viaggio in macchina: «Sono passato alla clandestinità per sfuggire all’arresto, poiché sapevo di essere oggetto di una misura di internamento. Mi occupavo e mi occupo ancora degli interessi del mio giornale … Non ho nulla da dirvi di più. Non scriverò nulla e non contate su di me per denunciare coloro che hanno avuto il coraggio di ospitarmi» .

 

In seguito al suo rifiuto di denunciare chi lo aveva ospitato durante la sua clandestinità, Alleg venne fatto spogliare e una volta sistemato «su un asse nero, sporco, imbrattato dei vomiti» degli altri prigionieri, gli vennero fissate “al lobo dell’orecchio destro”, ad “un dito della mano” e “al sesso” delle “piccole pinze d’acciaio brillante, lunghe e dentellate” attraverso le quali passavano forti scariche elettriche:

 

Improvvisamente sobbalzai e urlai a squarciagola. Cha… mi aveva cacciato in corpo la prima scarica elettrica. Vicino all’orecchio era scoccata una lunga scintilla. Sentii il cuore balzarmi nel petto.
Mi torcevo urlando e mi irrigidivo sino a ferirmi, mentre le scosse trasmesse da Cha…, magnete in mano, si succedevano senza soste.
Con il loro stesso ritmo Cha… scandiva una sola domanda, martellando le sillabe: «Dove sei stato ospitato? …».
Bruscamente, sentii come il morso selvaggio di una belva che mi strappasse la carne brano a brano. Con lo stesso sorriso, sopra di me, Ja… m’avreva applicato la pinza al sesso. Le scosse che mi giungevano erano così forti che i lacci coi quali mi avevano legato le caviglie si staccarono …
Dopo un po’, il tenente prese il posto di Ja… Aveva sguarnito un filo della pinza e me lo faceva scorrere sul petto. Ero tutto sconvolto da scosse nervose sempre più violente, e la seduta non accennava a finire. Mi avevano asperso d’acqua per aumentare l’intensità della corrente e, tra una scossa e l’altra, avevo il tempo di tremare di freddo. Intorno a me, seduti sugli zaini, Cha… e amici scolavano bottiglie di birra. Mordevo il bavaglio per tentare di attenuare il crampo che mi straziava da capo a piedi, ma invano. Finalmente smisero. «Avanti, staccatelo!». La prima seduta era finita.

 

Alleg resistette “alla prima seduta” senza parlare, allora i torturatori decisero, prima di sottoporlo ad un ulteriore supplizio elettrico con scariche più intense rispetto al trattamento precedente, e poi fissarono un tubo di gomma ad un rubinetto, avvolsero la testa del prigioniero in uno straccio, stringendogli il naso per impedirgli di respirare:

 

Lo… mi fissò di nuovo all’asse. Un’altra seduta di supplizio elettrico cominciava. Nelle mani del torturatore vidi questa volta un apparecchio più grosso e avvertii nel dolore una differenza qualitativa.
Ai morsi acuti e rapidi che parevano lacerare il corpo, succedeva ora un dolore più fondo, che penetrava in tutti i muscoli e li torceva più a lungo. Ero tutto contratto nelle cinghie, serravo le mascelle sul bavaglio e tenevo gli occhi chiusi. Quando si fermarono, continuavo ad essere scosso da un tremito nervoso.
«Sai nuotare?», disse Lo… chino su di me. «Te lo insegneremo. Avanti, al rubinetto!».
Sollevando l’asse sul quale ero disteso, mi trasportarono nella cucina. Là, appoggiarono sull’acquaio l’estremità del legno dove si trovava la mia testa. Due o tre paracadutisti reggevano l’altro capo dell’asse. La cucina era appena rischiarata da una fioca luce che veniva dal corridoio … Al rubinetto lucido che mi pendeva sul viso Lo… fissò un tubo di gomma. Mi avvolse la testa in uno straccio, mentre De… gli diceva: «Mettetegli una zeppa in bocca». Attraverso il tessuto Lo… mi stringeva il naso, cercava di cacciarmi un pezzo di legno tra le labbra, perché io non potessi chiudere la bocca o sputare il tubo.
Quando l’operazione fu compiuta mi disse: «Se ti decidi a parlare, non avrai che da muovere le dita». E aprì il rubinetto. Lo straccio si imbibiva rapidamente. L’acqua colava dappertutto: in bocca, nel naso, su tutto il viso. Per qualche istante riuscii ancora ad aspirare un po’ d’aria. Cercai, contraendo la gola, di assorbire il minimo d’acqua e di resistere all’asfissia trattenendo il più a lungo possibile l’aria nei polmoni. Ma non si trattò che di qualche istante. Avevo l’impressione d’annegare e un‘angoscia terribile, l’angoscia stessa della morte, mi prese. Mio malgrado, tutti i muscoli del corpo si torcevano inutilmente per sottrarmi all’asfissia. Mio malgrado, le dita delle mani si agitarono follemente. «Ci siamo! S’è deciso a parlare», disse qualcuno.
Il rubinetto fu chiuso. Mi tolsero il tubo di bocca. Respirai. Nell’ombra vedevo i tenenti e il capitano, la sigaretta tra le labbra, colpire a turno il mio ventre per farmi rigettare l’acqua assorbita. Ubriacato dall’aria che respiravo avvertivo appena i colpi. «Dunque?».
Restai muto. « S’è preso gioco di noi! Cacciategli di nuovo la testa sotto!…». La terza volta svenni .

Successivamente Alleg venne violentemente percosso, ustionato, legato con le mani dietro la schiena e portato in cella ove trascorse la notte su un giaciglio formato da un pagliericcio che aveva “come una cornice di filo spinato” .
L’indomani mattina venne trasferito in «una cella minuscola, quasi un ripostiglio, in cui la luce del giorno non filtrava mai. Solo una stretta lucerna, posta molto in alto, che dava su una bocca d’areazione, mandava un po’ di luce» .
All’interno di questa piccola cella, il giornalista fu costretto a subire nuovamente il supplizio degli elettrodi che gli vennero applicati all’inguine e poi alla bocca, “fino in fondo al palato, a filo scoperto”, poi venne bruciato con delle “torce di carta” , percosso al basso ventre e sottoposto al supplizio della sete: tenuto due giorni senza bere, il terzo giorno gli venne versata in bocca dell’acqua salata.
Fu tutto inutile, infatti il prigioniero non parlò: Alleg non ha ceduto, la vittima ha sconfitto il carnefice, il quale forse si sarà chiesto se lui sarebbe stato capace di resistere al dolore fisico e alle umiliazioni morali.
Visto che i supplizi non sortivano l’effetto desiderato, i torturatori diedero cibo e acqua ad Alleg, e lo portarono in infermeria ove un medico curò le piaghe del suo corpo. Indi decisero di ricorrere al Penthotal per farlo parlare, ma ogni sforzo si rivelò vano .
Alleg descrive la sua prigione algerina come un luogo sovraffollato, «dove ogni cella accoglie un dolore» . Al piano terra c’era la divisione degli ottanta condannati a morte, con le caviglie incatenate .
Ciascuna cella era piccola e buia. «I prigionieri dormivano su un pavimento di cemento, oppure si dividevano un pagliericcio in tre o quattro». Vivevano nell’oscurità dato che le imposte rimanevano sempre chiuse «affinché nulla trapelasse nelle case vicine».
Per giorni, settimane o mesi aspettavano nelle celle di essere interrogati, trasferiti in un campo di concentramento o in un’altra prigione, «oppure il cosiddetto tentativo di evasione, vale a dire una raffica di mitra nella schiena» .
Il vitto non soltanto era scarso ma costituito altresì da avanzi del pasto dei francesi: «due volte al giorno, alle due e alle otto di sera (quando non se ne scordavano), ci portavano delle gallette militari – cinque il mattino e cinque la sera – di rado del pane e qualche cucchiaiata di una zuppa fatta con tutti i rifiuti del pasto dei signori. Vi trovai un giorno un mozzicone di sigaretta, un altro un’etichetta e noccioli di frutta sputati» .
Un arabo aveva l’onere della distribuzione del cibo. Si trattava di un “ex fuciliere dell’esercito francese” poi “passato con gli insorti” che «era stato preso prigioniero durante un combattimento».
Per salvarsi la vita «aveva accettato di servire i paracadutisti» e subiva sia il disprezzo dei francesi che dei prigionieri.
«Era però durante la notte che il centro di tortura viveva la sua vera vita»: i carcerati potevano udire distintamente «i rumori delle armi, degli stivali, degli ordini», dei camioncini che rientravano nel cortile carichi di sospetti da interrogare.
Capitava anche che portassero delle donne che venivano rinchiuse nell’ala destra dell’edificio.
Le urla strazianti dei torturati squarciavano l’oscurità della notte .
La prigionia di Alleg ad El-Biar durò un mese. Il libro-documento del giornalista francese si chiude nel momento del suo trasferimento in un campo di concentramento da cui Alleg riuscì a mandare in Francia copia della denuncia da lui presentata al procuratore generale di Algeri, nella quale egli descriveva i supplizi ai quali era stato sottoposto dai paracadutisti francesi.
Fu aperta un’istruttoria in seguito alla querela di Alleg che «venne trasferito nel carcere civile di Algeri, sotto l’imputazione di attentato alla sicurezza esterna dello Stato e di ricostituzione di associazione disciolta» come membro del Partito comunista algerino.
L’inchiesta sulle torture ordinata dal generale Allard ha messo il giornalista a confronto con gli ufficiali e i soldati che egli aveva riconosciuto come suoi seviziatori. Durante il sopralluogo del giudice militare nell’edificio di El-Biar Alleg, prima di accedervi, ha descritto varie stanze della prigione e in particolare la cucina «che non avrebbe dovuto conoscere» se l’interrogatorio avesse avuto un normale svolgimento.
È inoltre agli atti un certificato rilasciato da due medici internati a Lodi che hanno visitato Alleg il giorno del suo arrivo al campo di concentramento: «un mese dopo le torture erano chiaramente visibili i segni dei lacci ai polsi, le cicatrici delle bruciature, e altre tracce».

Ancora oggi nel mondo si parla di torture e di guerre. La storia non ci ha insegnato niente.

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Rivista Destrutturalismo

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