Farrell-Vinay, povertà, politica

Farrell-Vinay, povertà, politica

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Farrell-Vinay, povertà, politica

Povertà e politica Nell’Ottocento, 1997, credit Antiche Curiosità©

 

Mary Blindflowers©

Farrell-Vinay, povertà, politica

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Giovanna Farrell-Vinay, Povertà e politica nell’Ottocento. Le opere pie nello stato liberale, Scriptorium, 1997, opera finanziata dal Dipartimento dell’Università di Torino.
Indice, stucchevoli ringraziamenti agli accademici con precisazione che si tratta di una ricerca di dottorato, premessa successiva con indicazione del piano dell’opera. La premessa inizia con una citazione dal Pinocchio di Collodi:

 

— E se non ti garba di andare a scuola, perché non impari almeno un mestiere tanto da guadagnarti onestamente un pezzo di pane?
— Vuoi che te lo dica? — replicò Pinocchio, che cominciava a perdere la pazienza. — Fra i mestieri del mondo non ce n’è che uno solo che veramente mi vada a genio.
— E questo mestiere sarebbe?
— Quello di mangiare, bere, dormire, divertirmi, e fare dalla mattina alla sera la vita del vagabondo.
– Per tua regola, – disse il Grillo-parlante con la sua solita calma, – tutti quelli che fanno codesto mestiere finiscono sempre allo spedale o in prigione. –

 

Secondo l’autrice “Questo dialogo contiene il principale messaggio di Pinocchio”, ossia l’etica del lavoro e della povertà. Scrive infatti la Farrell-Vinay: “La personalità del burattino aderisce perfettamente allo stereotipo del povero, così come ci viene tramandato da una tradizione centenaria: spensierato, imprevidente, pigro per natura”.

Poi passa a fare un riassuntino delle avventure di Pinocchio, concludendo che il percorso del burattino di legno “attraverso penose esperienze catartiche” è l’apprendimento del “risparmio e della frugalità”. Il messaggio principale della favola sarebbe quindi per i poveri quello “di lavorare sodo senza illusioni di facili arricchimenti”.
L’autrice continua su questa china sottolineando che “Pinocchio rispecchiava fedelmente le risposte tradizionali date a livello ideologico e culturale al problema della povertà”.

Questa interpretazione riduttiva e un poco tradizional bacchettona buonista della favola collodiana, serve all’autrice per introdurre il tema della povertà. Peccato che l’immenso universo magico-esoterico di Pinocchio, non si esaurisca nella sola etica del lavoro e in un messaggio di buona volontà per tutti gli indigenti del mondo.
L’inizio del libro, dunque, non è dei migliori perché adatta Pinocchio all’argomento di cui tratta nel testo, immeschinendolo e imprigionandolo superficialmente in un’etica che diventa nucleo senza in realtà esserlo, dato che l’assenza di mezzi è solo una delle caratteristiche del personaggio e non l’unica. Inoltre la conclusione sul dovere del povero che per secoli è piaciuta tanto alle scuole dell’obbligo e agli accademici cattolici, è soltanto in realtà un mascheramento metaforico, non un messaggio da prendere alla lettera.
Ma passiamo al libro della Farrell-Vinay. Si tratta di un viaggio nel mondo dei poveri e in particolare, come recita il titolo stesso, degli istituti preposti al contenimento del fenomeno pauperismo, analizzati regione per regione con dati statistici alla mano. Lo stile è impersonale, freddo, non letterario, di un accademismo che vuole aridamente informare più che coinvolgere chi legge, infatti è un libro nato per conseguire un dottorato, non un saggio con valore letterario, come se una cosa escludesse l’altra. Non sempre. Ma in questo caso l’autrice non ha saputo conciliare la ricerca con la capacità di affascinare il lettore attraverso la scrittura.
In quarta di copertina è scritto: “emerge un quadro ricco di contraddizioni e conflitti che mette in luce aspetti poco noti di un particolare risvolto socio-amministrativo del Risorgimento e sottolinea i rapporti di interdipendenza esistenti fra strutture ecclesiastiche e opere pie nell’Italia Meridionale”.
Poco noto non significa sconosciuto. Un libro ben documentato ma non sperimentale, un’indagine storica su dati non nuovi e di pesante lettura.
Tuttavia ci sono parti interessanti anche per un lettore non accademico. Per esempio la descrizione della vita quotidiana dei poveri dentro le opere pie e lo strapotere della chiesa nella gestione delle stesse, l’incapacità dei governi di far fronte al pauperismo sempre crescente, danno uno spaccato di vita quotidiana che, al di là dei dati, ci porta nel vivo della storia di come eravamo.
La descrizione del Reale Albergo dei poveri di Napoli ci fa capire le condizioni igienico-sanitarie e gli abusi dentro un sistema classista e imperfetto in cui il rispetto dell’uomo, non era tra le principali esigenze dell’epoca. Ambienti sporchi e degradati per gli ospiti e appartamenti di lusso per le suore che dirigevano l’istituto:

 

Il reparto femminile era lurido… un inferno dominato da prepotenza e ignoranza… Suor Vittoria Mantelli e le sue consorelle… era l’indiscussa arbitra di questo manicomio. A lei andavano i guadagni derivanti dai lavori delle ricoverate e dalle economie della gestione, in cui i governanti non osavano ficcare nemmeno la punta del naso. I commissari scoprirono che Suor Mantelli aveva un appartamento privato lussuoso, quasi fosse una badessa. Essa contava amici potenti nelle alte gerarchie ecclesiastiche… (p. 204).

 

Superando lo scoglio della noia indotta da uno stile di scrittura minuzioso e preciso ma letterariamente poco affascinante e il tedio di una marea di statistiche, utili per conseguire il dottorato, ma pesanti per un lettore medio, il libro offre qualche squarcio interessante di vita quotidiana dell’Ottocento. Si tratta di un saggio documentaristico con poco genio e molti dati, una premessa non proprio brillante, uno di quei saggi da appioppare agli studenti universitari che si prendono il caffè per non crollare sulle pagine scritte.

 

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