Fernanda Romagnoli, poetessa dimenticata

Fernanda Romagnoli, poetessa dimenticata

Fernanda Romagnoli, poetessa dimenticata

Fernanda Romagnoli, poetessa dimenticata

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Mary Blindflowers©

Fernanda Romagnoli, poetessa dimenticata

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Fernanda Romagnoli (Roma, 5 novembre 1916 – Roma, 9 giugno 1986), è una grande poetessa che ha avuto un curioso destino. Molti oggi purtroppo, ignorano perfino che sia esistita.
Ha scritto 4 libri di poesie: Capriccio, A. Signorelli, 1943; Berretto Rosso, Edizioni del Sestante, 1965; Confiteor, Guanda 1973; II tredicesimo invitato, Garzanti, 1980. Libri introvabili.
Nell’ansia citazionistica delle varie Merini, Pasolini (che non era di certo un poeta), Zanzotto, etc., la Romagnoli viene ingiustamente sepolta da un oblio che dura e che lei ha sentito investirla anche in vita, tant’è che era perfettamente consapevole di cantare al buio, ignorata mentre altri ricevevano applausi:

 

Palco vuoto

 

Sospinta a recitare –
avevo in mente una diversa parte.
Nel programma scordavano il mio nome.
Le mie quattro parole, del resto,
non supponevano un’arte.
Poi sospinta al proscenio – nel cascame
dell’altrui gloria. Le risa delle luci,
gli applausi fitti come bosco in fiamme
non erano per me.
Fra le quinte e la polvere, felice,
me ne stavo in disparte
fissando in alto, oltre la gente – attenta
a un vuoto parapetto di velluto,
al buio dietro, all’ombra di quel re
che mai nessuno ha veduto.

 

Leggendola, si ha una specie di folgorazione, la netta e precisa sensazione di leggere poesia allo stato puro e nient’altro e non ci sono giustificazioni plausibili o accettabili per averla dimenticata e per continuare in questo madornale errore, oggi più che mai, in una società in cui gli artisti scomodi sono spesso “morti in vita”, e in cui si privilegia il ruolo sociale e politico di uno scrittore e di un poeta rispetto a quello artistico.
La Romagnoli non ci propina innocue visioni paesaggistiche alla Zanzotto, o prosa che finge poesia alla Pasolini, ma ci illumina anche polemicamente sul senso del mondo, sentendosi estranea, come “il tredicesimo invitato” nel “teatrino dei topi”, nel mondo degli “amici-schiavi” e degli “ipocriti inermi”, vermi da salotto e già oggetti che bisbigliano…

 

 

Oggetti

 

I piccoli oggetti, i piccoli
amici-schiavi, che tirano
troppo in lungo la vita! Miei cari,
vi licenzio in tronco. È più dura
forse per me: ma chi monco,
chi gobbo, chi spelato da lebbra;
e il mazzo di chiavi risputato
da ogni serratura.
Gli ipocriti inermi! Bisbigliano
Aiuto, pietà.
E s’uncinano a tutti gli appigli,
a tutti i ricordi come labbra
s’attaccano, come vermi.
Giù nel sacco – un tonfo – coraggio!
Non sarà un lungo viaggio.
In cantina, il bel dormitorio.
Col teatrino dei topi, il tanfo
del vino, la grata
(tarlata) del parlatorio
per la piuma, per la foglia di passo.
Tra vecchi fratelli… Diciamo
che a noi padroni va peggio,
quand’è l’ora nostra… ma adesso
muoviamoci, andiamo.

 

 

E si immagina in Avvento, già morta che non lascia firme sugli specchi, lampo, attimo del fluire via che scompiglia i libri dei vivi nella scansia, ed essi si chiedono attoniti cosa mai sia stato e cosa sia passato e non possono vederla né sentirla, mimetizzata nel colore delle stanze, senza respiro… Un’entità libera che passa e che i viventi non rammentano: “durerà il mio avvento solo l’attimo/ di rifluire via”:

 

Avvento

 

Mi scinderò dalla perpetua danza,
dal flusso senza fine che mi porta,
creatura di lucente libertà
– io – che piangete morta.
Invaderò la casa: un solo giro
come fa il lampo.

In consistenza d’aria,
assumerò il colore d’ogni stanza.
Senza toccar le cose – non ho mani –
Senza lasciare firme sugli specchi
– non ho respiro –

Vi stupirà la tenda
che ferma taglia un brivido,
il vermiglio tumulto dei gerani,
lo scompiglio dei libri nell’eremo
della scansia. Poi, subito riemersi
come statue da un vento:
“Che cosa è stato” attoniti
vi chiederete. Diletti, non v’offenda
se durerà il mio avvento solo l’attimo
di rifluire via.

 

 

In Capro espiatorio c’è il senso della prigionia di fronte alla vita, l’impossibilità di alzarsi, la paura nella luce antropomorfizzata e animalizzata: “unghia sotto le porte”, “cagna-luce”, nel “buio sacrario”, a creare immagini chiaroscure che sanno di gotico fluire e di grande efficacia espressiva, in una atmosfera di dolorosa e incatenata claustrofobia con il sonno legato come un animale e la vita che, nonostante la sofferenza, scalcia e preme alle porte dell’oscurità:

 

 

Capro espiatorio

 

“Uggiola alla fessura, cagna-luce.
Qualcuno il mio sonno ha legato
quattro zampe in un mazzo. All’aurora
chi aprirà? Voglio alzarmi. Ho paura.
Nel pozzo del cranio
– senza uscita -. Nel buio sacrario
sconsacrato. (La luce come un’unghia
sotto le porte). Capro espiatorio
già caduto sul fianco, otre di sangue
già mezzo vuoto – come scalci ancora
forte, mia vita”.

 

 

Trovare i libri di questa poetessa è difficile. Le vetrine sono occupate da altri poeti, da altre grandi firme alla moda che muovono spesso inutilmente la coda, nonostante nel 1973 la Romagnoli abbia comunque pubblicato Confiteor, con Guanda, per intercessione di Bertolucci, (si pubblica sempre coi grossi per virtù di un santo), non viene ripubblicata dalla grossa editoria a cui nemmeno sfiora il pensiero di riproporla.
Troppo polemica? Troppo poco innocua? Troppo poetessa? Troppo talento di fronte al quale celebrati tromboni da salotto e università, impallidirebbero?
La risposta non può che essere affermativa in una società che celebra ed esalta prevalentemente i mediocri e dimentica i grandi.

 

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