Letteratura, morale papale, animali

Letteratura, morale papale, animali

Letteratura, morale papale, animali

Letteratura, morale papale, animali

L’airone, credit Mary Blindflowers©

 

Mary Blindflowers©

Letteratura, morale papale, animali

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Il papa: “Tante coppie non vogliono avere figli perché non vogliono, ne hanno uno e non di più, ma hanno cani e gatti che occupano il posto dei figli… Questo rinnegare la paternità e la maternità ci diminuisce. La civiltà diviene più vecchia e senza umanità e soffre la patria…”

Il legame con la nostra dimensione animale, svilito da religioni arroganti, da papi che parcellizzano l’affetto e lo quantificano come se si esaurisse, lungi dall’essere un depauperamento, è infatti un arricchimento perché gli animali fanno parte della nostra evoluzione, sono il nostro alter ego buono e primitivo, non semplici surrogati o sostitutivi dei figli ma creature che non conoscono le paranoie tediose e deleterie del peccato originale, che non hanno il senso della sofferenza esibita, con quel Cristo che mostra continuamente le piaghe come se dovessimo averle tutti. Siamo nati per soffrire come le suore di clausura che si ricordano ogni minuto che devono morire. Non se ne può più! Gli animali non hanno religione. Fortunati!

Per una curiosa associazione di idee il delirio papale mi ha fatto rivenire in mente Sandro Bevilacqua che ne Il bosco di Giona, attraverso la sua “meravigliosa” prosa, che pur ha i suoi limiti, dimostra di avere le idee molto più chiare del papa riguardo al legame tra uomini e animali e descrive fin dalle prime pagine della sua opera, un universo che, sia in pace che in guerra, brulica di vita e di morte, in una interazione uomo-bestia che la cultura contadina conosceva bene e che si è in parte perduta oggi:

 

“Quella sera non potevo dormire”, cominciò il giovane ex-soldato. “Nella mia tana nel bosco mi aveva assalito una inquietudine misteriosa; strani fantasmi passavano davanti alla mia mente, figurazioni mostruose sbalordivano e atterrivano le mie pupille. Da parecchi giorni in quella stagione di sangue vivevo in quel bosco di eucalipti e di pini selvatici, certe piante altissime che avevano la malinconia e l’abbandono dei morti. Improvvisamente un grande uccello, con furioso volo scese da uno di quei pini e si fermò davanti alla mia tana di cespugli e d’erbe: in sulle prime mi spaventai, gli occhi dell’uccello avevano un fuoco sinistro, ma poi mi abituai a quella presenza. Anzi quando l’uccello si avvicinò al mio giaciglio di vagabondo notai che le sue penne erano di un azzurro assolutamente incantevole e che il suo grido non aveva tristezza. In quel bosco io e l’uccello misterioso – non ho mai saputo il nome di quel volatile, né ho mai sentito un grido così vicino alla voce umana – vivemmo parecchi mesi, come due creature uscite dallo stesso sangue.

 

Il papa è preda di un malevolo e cattivo antropocentrismo. Si parcellizza il sentimento come se fosse una sostanza da prelevare da un contenitore limitato e quindi distribuibile a pochi eletti, esauribile, ciò in aperto contrasto con l’amore universale che la Chiesa va continuamente predicando. La trita morale veterocattolica come un imperativo categorico da rispettare senza se e senza ma, ci impone di far figli piuttosto che avere cani e gatti. Superficiale predicata arroganza da distribuire a minions di massa. Bevilacqua invece non predica perché la letteratura non ha compiti morali, va semplicemente più in profondità, sente l’identificazione forte con la natura. Ne Il bosco di Giona, c’è una antropomorfizzazione buona e rispettosa verso un mondo in cui gli alberi provano malinconia e sembrano comprendere l’abbandono dei morti, quella tragedia della guerra che l’uomo causa e di cui è vittima.
Il volatile diventa così, nella sua accettata e compresa animalità e diversità, un vero fratello di sangue che non ha nemmeno bisogno di catalogazioni o di avere un nome proprio perché ha un grido vicino alla voce umana e questo basta. C’è empatia, identificazione con la nostra dimensione spirituale incarnata da una natura amica. È l’uomo ad essere cattivo. L’uomo produce la guerra e dunque la morte. Ebbene, con queste poche righe la letteratura può dar lezioni al bigottismo papale perché in poche semplici frasi si coglie tutta la dimensione del sacro.
La sacralità non è sedersi dentro una Chiesa umida e pregare dio, non è adorare un papa che vive nel lusso, ma instaurare un legame profondo con la propria dimensione terrena per superarla e coglierne il senso spirituale.
Il fate figli papesco suona come il rimprovero di un padre cieco e snaturato, le sue parole un vero arabesco di sterco su una torta perfetta che dovrebbe rimanere tale, quella dell’autodeterminazione del singolo.
Non si considera nessun caso specifico, né il costo dei figli che di certo non ci manterrebbe il Vaticano con tutti i suoi miliardi, né il desiderio soggettivo e legittimo di non volerne, né le condizioni soggettive che possono essere molteplici e diversissime per chi la vita non la vive dentro le mura dorate della Chiesa.
E c’è chi dice che il papa avrebbe ragione perché amando gli animali perderemmo il senso del sacro.

Niente di più falso.

Una delle manifestazioni religiose più primitive che testimonia la sacralità, è il totemismo su cui esiste ampia letteratura. Si vedano J.F. McLennan, W. Robertson Smith, E.B. Tylor, S. Freud, C. Lévi-Strauss, etc. etc.

Forse il senso del sacro si esercita tagliando gli alberi secolari e facendone trastullo in Piazza San Pietro? Recidendo così malamente quel legame spirituale che si dovrebbe avere con la natura, per poi salire sul pulpito a dettar legge sui comportamenti e sulle scelte altrui?

Semplici domande.

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