Pianeti, Persefone, miti sacri

Pianeti, Persefone, miti sacri

Pianeti, Persefone, miti sacri

Pianeti, Persefone, miti sacri

Ugo Carà, incisione originale, Prova unica, credit Antiche Curiosità©

 

Angelo Giubileo©

Pianeti, Persefone, miti sacri

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Giorgio de Santillana dice con certezza che i “cani di Persefone” degli antichi Greci fossero i pianeti, infatti è così che Pitagora chiamava i pianeti “i cani di Persefone” (Il mulino di Amleto, 2000, p. 329).
A grandi linee, molti conoscono il mito di Persefone, Proserpina per i latini, imago junghiana, correlato del fanciullo nel primo ambito o dimora familiare. Persefone fanciulla viene rapita dallo zio Ade e condotta negli inferi, dove sarà costretta a vivere, come regina, per quattro o sei mesi all’anno, secondo i diversi resoconti o narrazioni del mito, e per i restanti mesi su nell’Olimpo in compagnia della madre Demetra e del padre Zeus, fratello di Ade.
L’immagine di Persefone precede quel cammino fatto di luce da cui prende invece <l’inizio che è l’inizio che è> (come direbbe poi Heidegger) la cultura e il culto egizio, ed è ancora de Santillana a chiarirci l’importanza di questo assunto, un vero e proprio assioma o postulato, da cui trae il <principio> anche la cultura cattolico-nietzschiana, in scia all’ammonimento giovanneo, il quarto evangelista, secondo cui gli uomini avrebbero dovuto e dovrebbero preferire le tenebre alla luce, e non viceversa.
Dal dotto egizio Cheremone, che fu direttore del museo di Alessandria e in seguito insegnante privato dell’Imperatore Nerone a Roma, veniamo a sapere, attraverso la testimonianza di Porfirio presso Eusebio, che gli Egizi <non presuppongono nulla prima del κόσμος visibile, anzi spiegano gli dei identificandoli con i cosiddetti pianeti e figure zodiacali e relativi παρανατέλλοντα, come i decani e gli ωρόσκοποι>, e che essi <interpretavano la tradizione di Iside e Osiride, e tutti i miti sacri, riconducendoli ai periodi di visibilità e di invisibilità delle stelle e al loro sorgere, oppure alle fasi della luna, oppure al percorso del sole nell’emisfero notturno e in quello visibile durante il giorno, oppure al fiume>. (Non si sa con certezza se con ποταμός (<fiume>) si intendesse la Via Lattea oppure il Nilo). (Ibidem, p. 406 s.).
E allora: cos’è che emerge dalle tenebre dell’oscurità, attraverso il mito, ed è cioè prima del cosmo visibile (fatto sia di tenebre che di luce, come Parmenide, più di ogni altro, ci testimonia con <vera certezza> nei frammenti che a noi sono ancora oggi pervenuti)? Nient’altro che il tempo.
Per Esiodo, il tempo è già Κρόνος. E dunque figura di colui che nasce dalla terra Gea e da Urano, il cielo stellante, che vive pertanto di una sua propria e specifica ambiguità, nell’uno e nell’atro luogo o topos, alla luce e all’ombra di un alter-ego destinato a sconfiggerlo e quindi a succedergli. E quindi Κρόνος non è affatto quell’eterno di cui gli uomini sembrano essere in cerca, non da sempre ma almeno dal giorno in cui hanno creduto, percependosi come <mortali>, di poter diventare <immortali>.
Bernardo di Cluny dirà che nomina nuda tenemus. Niente di più falso. I nomi cambiano e con essi anche il loro significato; così che, in definitiva, il <bene> diventi il <male> e il <male> il <bene>, che l’uno non possa essere senza l’altro e l’altro senza l’uno, ma entrambi sono il frutto – come il melograno di Persefone o la mela di Eva che sia – dell’<albero della vita e della morte>. Albero, scettro, bastone, axis mundi nato dal seme gettato del tempo, quell’unico-eterno che i Greci chiamavano Αἰών e di cui Euripide, circa 2/3 secoli dopo Esiodo, dice: Αἰών Χρόνου παῖς (Eraclidi, 899-900).
E cioè Aion <figlio> di Crono o meglio, noi crediamo: Aion <fanciullo> di Crono. Figura o immagine di un tempo destinato a restare sempre giovane, quindi immortale, quindi eterno, che non scorre attraverso il fiume della storia, che gioca ai dadi come appunto il fanciullo di Eraclito.
Persefone è in definitiva la dea, femminile e primordiale, del tempo eterno che precede ogni cosa, che presiede a ogni cosa, che governa o anima ogni cosa, che è Regina delle tenebre e partecipa ugualmente del regno della luce, l’alfa (Α) e l’omega (ώ) dell’intero percorso o via (ἰ) dell’essere che è e non è possibile che non sia (Parmenide) e che emerge alla superficie visibile dall’<acqua primordiale> vedica (ν), che circonda e dalla quale nasce anche l’intero cosmo greco.
In proposito, le conclusioni di Franco Rendich non lasciano dubbi. Anche se è sempre, oltre che lecito, necessario coltivarli. Dato che lo scetticismo, la via dell’Epoché (ἐποχή epokhē) è l’unica via maestra, nella quale l’<umano> necessita credere.
Presso gli antichi popoli indoeuropei l’idea di <negazione> nacque proprio dall’esperienza dell’oscurità delle acque notturne. In quei tempi (n.d.r.: circa 10000-8000 e.a.) si credeva che le ore buie della notte fossero provocate dal concludersi del periodo di moto dell’oceano luminoso e dal giungere intorno alla terra dell’oceano di acque tenebrose. E così, durante la notte, alla domanda “che cosa si vede?”, la risposta non poteva che essere “si vede solo na, acqua”. Tale risposta equivaleva ad affermare “non si vede” (L’origine delle lingue indoeuropee, 2007, p. 233).
E dunque il visto/non visto è tutto ciò che assume “forma”, nel senso del termine adottato da Aristotele, all’occhio di Horus, ma che non va confuso con la “sostanza”, nel senso del termine adottato sempre da Aristotele, di tutto ciò che è e non è possibile che non sia. Ossia, come dice de Santillana, la struttura del tempo. La vera e propria struttura del tempo eterno.
Così che: allora di via resta soltanto una parola che è (Parmenide). “E’”, senza l’aggiunta di alcun predicato, nemmeno il predicato dell’esistenza, a evitare che le tenebre si confondano con la luce e viceversa, dato che tutto è tenebre e luce insieme e dato che all’<umano>, secondo l’Epoché non è concesso di comprendere alcuna cosa circa il destino che pure in qualche modo gli appartiene. Come ci ricorda altrove de Santillana: le gran don de ne rien comprendre à notre sort (Fato antico e fato moderno).
Nel frattempo, non pensate però che, occupandoci di Persefone, abbiamo dimenticato che, ci sia ora concesso, ella abbia smesso di giocare con i (suoi) cani. Al contrario, ella non smette mai di farlo. Nel cosmo greco, i cani sono i pianeti e cioè i Sette Savi, che orientano in qualche modo la visione dell’intero cosmo e scandiscono ancora oggi il tempo della nostra vita giornaliera, attimo per attimo: Luna, Marte, Mercurio, Giove, Venere, Saturno e il Sole.
<Pan> – nome che riecheggia essenzialmente il παῖς di Eraclito, Persefone-fanciulla, il tempo eterno di Aion – non è morto perché non può morire. Infatti il mito non muore mai e nel mito non muore mai nulla, ogni <Elemento> – alla maniera di Euclide, Στοιχεῖα – vive in esso eternamente. Persefone non è morta e non muore, è; diversamente dal destino dei cani, che come ogni cosa elemento o dio è, ma in qualche modo anche diviene. E così si dice che per prima sia stata la Luna a fornire all’<umano> l’orientamento, non a caso i primi calendari sono stati strutturati sul corso visibile della Luna e quindi delle sue 12/13 fasi, in pratica i mesi dell’anno.
Gli egizi preferirono orientarsi sul corso visibile del Sole, l’astro – solo apparentemente e in astratto – più luminoso. Dato che, in passato, anche gli egizi hanno creduto che Sirio, stella-Polare, e quindi astro più luminoso nel buio della notte – essendo come credevano ma non com’è in realtà soggetta anch’essa al moto della precessione equinoziale (G. de Santillana, Sirio) -, fungesse meglio a raffigurare l’eterno, il tempo del rito che fluisce sempre uguale a se stesso, l’anno o il grande anno secolare. Del resto, lo stesso de Santillana ci dice, e abbiamo imparato che c’è da credergli, che Pan fosse stato egli stesso, Il Grande, prima di diventare Sirio.
Oggi, superata la mera illusione della conquista della Luna, sembra proprio che molti tra gli uomini siano attratti dal nuovo mito di conquistare Marte. Almeno questo è ciò che credono Musk, Bezos e molti altri.

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