Cultura, letteratura, forma, ingegni

Cultura, letteratura, forma, ingegni

Cultura, letteratura, forma, ingegni

Cultura, letteratura, forma, ingegni

Il faro, credit Mary Blindflowers©

 

Mary Blindflowers©

Cultura, letteratura, forma, ingegni

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Leggo perché la televisione mi annoia, nemmeno ne possiedo una.
Scrivo perché per me è stato sempre più complicato andare a comprare una lavatrice o un elettrodomestico qualsiasi che scrivere. Se così non fosse non avrebbe senso ciò che comunemente si chiama scrittura.
Se ci sono scriventi, mi limito a testare con questo verbo l’attività in sé e per sé, scevra e disincastrata da ogni egotismo illusorio tendente all’autoincensazione dell’io, che pensano allo scrivere come attività speciale, idea balzana mutuata dal Romanticismo, per me è attività ordinaria, priva di qualunque connotato di straordinarietà.
Si beve un bicchiere d’acqua, si respira, si scrive, si legge.
Attività quotidiane che fanno parte della routine di ogni sano (si fa per dire) appassionato di lettere.
Si scrive con la stessa inconsapevolezza che si ha talvolta nel bere l’acqua.
L’idea dello scrittore chino sul piano di lavoro o sulle dita esitanti sulla tastiera, mi è del tutto estranea. Anzi percepisco una nota di ridicolo nello sforzo stesso, una tensione che non soltanto non mi appartiene ma considero patetica. Sforzarsi nel compiere un’attività che probabilmente non condurrà a nulla, ha il non troppo vago sentore di un masochismo surrogato e mascherato con il nome subdolo di “arte”.
Discorrendo in questo modo si rischia di essere accusati di dilettantismo, ma le accuse, le critiche, fanno parte del gioco di questa cosiddetta arte. Chi non ne riceve, probabilmente non esiste nemmeno o si corazza dietro un desiderio trasformista quanto ipocrita di assecondar tutti sempre e subito senza discussioni dialettiche, contraddicendosi perfino spesso e volentieri.
La scrittura è solo pienezza interiore. È tutto molto più semplice di quanto sembri a prima vista.
Non per tutti è così. Sono in pochi ormai, nell’epoca post-partitica dei grandi gruppi finanziari, ad accettare questa semplicità.
Eppure aveva ragione Renato Serra, autore che molti non conoscono nemmeno, scrittore della generazione intorno al 1915:

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Del resto viviamo, perché non se ne può fare a meno e la vita è così. E facciamo magari della letteratura. Perché no? Questa letteratura che io ho sempre amato con tutta la trascuranza e l’ironia che è propria del mio amore, che mi sono vergognato di prendere sul serio fino al punto di aspettarne o cavarne qualche bene, è forse, tra tante altre una delle cose più degne… Io non saprei neanche avere nel nostro lavoro la fiducia superba di alcuni miei vicini; vivo troppo fuori dal secolo per credere ad una conquista dell’assoluto, che debba essere la parte esclusiva di questa generazione (Esame di coscienza di un letterato).

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Serra non si asteneva dal criticare:

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… i giornalisti che hanno imparato il greco e il latino sul Larousse, gli enfants terribles della modernità autodidatta, uso Papini, che vogliono mostrare che anche questo territorio l’hanno corso e lo possono tenere magari meglio degli altri (ed è quasi vero) e i tradizionalisti che trovano di buon gusto tornare al cattolicesimo in cui non credono e all’italiano che non sanno (Lettere).

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Lo scrittore traccia così una distinzione importante tra “cultura” e “letteratura”. La prima è “l’ambizione delle apparenze”, la seconda invece “movimento che diventa fede e forma degli ingegni”.

Oggi il confine tra cultura e letteratura si è assottigliato ancora di più, disastrosamente.
In pochi conoscono Renato Serra, in pochi lo leggono. La massa così stordita dall’ansia del nome celebra sempre gli stessi autori, ignorandone altri. Il nome sembra sicuro perché come sosteneva Boine è elemento di coesione dell’oggi all’ieri, porto di riconoscimento del reale che scollega dall’astrazione. Il nome è la definizione delle cose, che diventano da cose, cose con il nome. Lo stesso principio di catalogazione viene applicato alla specie umana:
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Non mi torrete il mio nome. Lo imbraccio come uno scudo. Tra la smarrita paura dell’ieri e l’oggi vissuto, ho messo a ponte il mio nome… Talvolta quando al tramonto passeggio stanco per il corso che è vuoto, mi imbatto stupito nelle cose d’ieri e sono pur io una cosa col nome…
E come tu vuoi che rinsaldi l’oggi all’ieri, labbra di abisso, ferita divaricata sull’infinito? (Frantumi).

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Come non cogliere l’ironia e lo smarrimento dell’uomo di fronte all’inanità stessa del collante fatuo del nome?

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Rivista Il Destrutturalismo

 

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