Felicemente infelici, infelicemente felici

Felicemente infelici, infelicemente felici

Felicemente infelici, infelicemente felici

Felicemente infelici, infelicemente felici

Robot, credit Mary Blindflowers©

 

Mary Blindflowers©

Felicemente infelici o infelicemente felici

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In Memorie dal sottosuolo, Fëdor Michajlovič Dostoevskij sosteneva che non bisogna aspettarsi troppo dall’uomo, impasto di stranezze. Anche se fosse affondato fin sopra la testa di felicità, se non avesse bisogno più di far niente se non dormire, mangiare dolciumi e darsi da fare affinché non abbia fine la storia universale, combinerebbe delle schifoserie, perché tale è la natura umana. L’uomo felice e che non ha bisogno di nulla, finirebbe per giocarsi perfino i dolciumi, arriverebbe addirittura a desiderare di essere protagonista della “più funesta delle sciocchezze, la più antieconomica delle insensatezze” e solo per poter mischiare alla positiva razionalità, il proprio elemento fantastico, affermandosi e sentendosi vivo.
L’aspirazione alla infelicità è forte in noi quanto quella alla felicità e cercare ragionevolezza in tutto questo, significa semplicemente non arrivare a capire l’uomo nelle sue eterne ed insanabili contraddizioni.
Siccome la letteratura è anticipatrice e dice cose che la scienza scopre sempre più tardi, ritengo che lo scrittore russo avesse ragione.
L’uomo aspira semplicemente ad affermare se stesso, sia nell’infelicità che nella felicità, per questo motivo anela realmente a provare entrambe le condizioni, anche se in teoria racconta a se stesso e agli altri di agognare soltanto alla seconda.
Date queste premesse, mi domando come mai ancora persone stimate ragionevoli che discutono tra loro di temi sui quali non si trovano d’accordo, stimino opportuno e intelligente accusare l’interlocutore di infelicità. Se non la pensi come me devi essere un infelice, quante volte avete sentito questa frase? Ricorre di continuo e di solito accompagnata dall’aggettivo “povero” che avrebbe lo scopo di rafforzare l’enunciato, sì perché anche la povertà è vissuta come condizione da occultare.
L’infelicità diventa così un’accusa vera e propria, una colpa di cui occorre vergognarsi, come una malattia, una sorta di peste sociale.
Questo perché oggi è di gran moda dare di sé l’idea di una continua, noiosa e surreale felicità. Apparire felici è la regola per vivere bene in società. I social hanno ampliato notevolmente questo fenomeno. L’omissione tocca tutti gli aspetti negativi dell’esistenza, privilegiando soltanto le cose belle, l’armonia e la pace esteriore. Che ci sia poi una reale corrispondenza tra questa immagine esterna che si vuole costruire di sé e la realtà, nutro sempre seri, serissimi dubbi. L’immagine del vincente comunque predomina e bandisce ogni disarmonia: la lotta tra il Carnevale e il tempo ordinario, la notte il giorno, che fa parte del naturale ciclo della vita, è relegata nel regno del non si dice. Si offre così di se stessi il semplice riflesso, l’ombra fallace che non ha contorni precisi ma si crogiola e si imbavaglia nell’idea inesistente di felicità da Paradiso terrestre. Si rafforza conseguentemente l’idea che la felicità sia fonte di grande ispirazione, di amore del prossimo, di bontà che sgorga dal cuore tenero e apprezzabile, di tutela della cultura, di attenzione ai problemi dell’altro. Insomma i felici sarebbero tutti buoni e gli infelici tutti cattivi, detto in poche parole semplici, presupponendo pure che felicità e infelicità durino per sempre ed escludendo ogni possibile cambiamento.
La felicità da social, con tutte quelle belle tavole imbandite, i sorrisi tirati in foto di trent’anni prima, le strette di mano con inchino, i baci che lasciano per diletto impresso il rossetto sulle guance altrui come se fosse un marchio di fabbrica, i brindisi con vini costosi, le foto dei propri animali con pedigree, i fiori mai secchi, insomma tutta questa smania di dimostrare di essere felici, ricchi e pacifici, suona come dannatamente artificiale, un sintomo di infelicità.
C’è qualcosa che non quadra in tutto questo movimento, qualcosa di innaturale e forzatamente falso.
Chi dice di essere sempre felice forse è il primo a non essere felice perché chi non accetta la naturale ed ineliminabile aspirazione all’infelicità, forse non sa nemmeno cosa sia la vera felicità e vive nella sua ombra illusoria che tra l’altro è pure un poco noiosa.
Anche l’accusa di infelicità lanciata a chiunque dissenta, suona falsa, a meno che non si voglia dire che Dostoevskij, avesse torto, e i felicetti e le felicette dei social coi loro sorrisetti isterici, i vezzi e e le certezze di cemento armato, tutti ragione.
L’uomo intelligente ama costruire strade ma adora anche il caos e la distruzione, perché se la strada diventa monotona, può decidere di non seguirla e andare altrove, proprio dove l’infelicità che alcuni temono come la peste bubbonica, potrebbe essere causa di grandi felicità creative. Siate felicemente infelici o infelicemente felici, insomma, fate voi, almeno potrete dire di essere umani.

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