Bella grassona mia, Cavalli

Bella grassona mia, Cavalli

Bella grassona mia, Cavalli

 

Bella grassona mia, Cavalli

Marangoni, La calzettaia, original engraving, credit Antiche Curiosità©

 

Lucio Pistis & Sandro Asebès©

Bella grassona mia, Cavalli

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Mario Buonofiglio in un suo improbabile articolo intitolato Sull’«Endecasillabare» Di Patrizia Cavalli O Il Fiore Di Datura, esalta la Cavalli come poetessa sottile, paragonando addirittura i suoi versi alla poesia amorosa seicentesca o alla produzione tardo-cinquecentesca del Tasso:

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—Bella grassona mia, ti penso sempre.
Un bacio, no anzi due. Già che ci siamo
mettiamone altri cinque e fanno sette,
che a ricoprirti tutta ce ne vuole!

In questi endecasillabi c’è anche un innesto ironico di alcuni stilemi della poesia amorosa secentesca (si pensi, per esempio, alla produzione tardo–cinquecentesca di Torquato Tasso, già pervasa però dalla nuova sensualità del XVII secolo): la bella è diventata una grassona e il numero mille è stato ridotto a sette.

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Certo che ci vuole una bella dose di faccia tosta a paragonare i versi del Tasso a quelle due frasettine sciape e stantie in pura prosa, ad accostare la numerologia simbolica tassiana, miniera inesauribile di significati allegorici, al vuoto contenutistico ed espressivo della Cavalli. È proprio vero che la critica è morta. Sulla base di quale connessione intertestuale o di quale acrobazia magico-numerologica, il mille del Tasso diventerebbe il sette della Cavalli?

Ma andiamo oltre:

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Addosso al viso mi cadono le notti
e anche i giorni mi cadono sul viso.
Io li vedo come si accavallano
formando geografie disordinate:
il loro peso non è sempre uguale,
a volte cadono dall’alto e fanno buche,
altre volte si appoggiano soltanto
lasciando un ricordo un po’ in penombra.
Geometra perito io li misuro
li conto e li divido
in anni e stagioni, in mesi e settimane.
Ma veramente aspetto
in segretezza di distrarmi
nella confusione perdere i calcoli,
uscire di prigione
ricevere la grazia di una nuova faccia.

Da “Il cielo”, in Patrizia Cavalli, Poesie (1974-1992), Einaudi, Torino, 1992

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Che messaggio vuole darci la poetessa che si improvvisa geometra e perito? Francamente della contabilità del peso dei suoi sogni, oberati come siamo dai nostri oramai gravidi di incubi per la senescenza ingravescente, non ci potrebbe interessare di meno. Il messaggio vuole essere una sorta di imitazione del passo di Aristofane nella “Pace” quando si propone le misurazione a squadre e cubiti della poesia? È questa penosa ars allusiva che guida la Cavalli? Poteva pensare a qualcosa di meglio. La poesia è contenutisticamente del tutto innocua e priva di creatività che poi è la misura dell’arte. Il testo non ammalia per niente, anche perché è criptico e arduo comprendere che significa dividere cronologicamente i sogni che le piovono addosso, né giova affatto all’affascinazione la metafora di quei versi pesanti modello escavatore, e leggeri modello falenuccia. La chiosa tutto sommato poi fa pensare a un flebile e tenero desiderio di sgombrarsi dal gravame dell’onirismo nascondendo un desiderio di giovinezza, ahimè alquanto puerile: “ricevere la grazia di una nuova faccia”. Il ritmo è completamente dimenticato a favore di una prosa, perché di prosa si tratta, piuttosto banale e di stampo prettamente intimistico che non si universalizza. Fin dal primo verso, con notti e giorni che cadono sul viso, si cerca penosamente di elevare a poesia un concetto abusatissimo, l’alternarsi del giorno e della notte. Quanto alla parte formale, vorremmo chiedere alla poetessa: se abiura la punteggiatura, perché la usa per dividere a volte da altre volte, in anni e stagioni da in mesi e settimane, mentre la evita in li conto li misuro li divido? Sia fatta almeno salva nella libertà di uccidere asindeti e polisindeti, una certa omogeneità e coerenza!

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Adesso che il tempo sembra tutto mio
e nessuno mi chiama per il pranzo e per la cena,
adesso che posso rimanere a guardare
come si scioglie una nuvola e come si scolora,
come cammina un gatto per il tetto
nel lusso immenso di una esplorazione, adesso
che ogni giorno mi aspetta
la sconfinata lunghezza di una notte
dove non c’è richiamo e non c’è piú ragione
di spogliarsi in fretta per riposare dentro
l’accecante dolcezza di un corpo che mi aspetta,
adesso che il mattino non ha mai principio
e silenzioso mi lascia ai miei progetti
a tutte le cadenze della voce, adesso
vorrei improvvisamente la prigione.
da “Il Cielo”, in Patrizia Cavalli, Poesie (1974-1992), Einaudi, Torino, 1992

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Qui passiamo, in questa decisamente brutta prosa, che nemmeno può essere definita poetica, dall’addosso all’adesso, una consonanza terribile in sibilanti geminate condita ora con le anafore di una congiunzione temporale la cui reiterazione mostra tutti i limiti nello slancio emotivo e nelle attitudini stilistiche dell’autrice. Qualcuno può spiegarci che significa contenutisticamente il desiderio del carcere (che tipo di carcere metaforizza con quella parola la poetessa?) che invade l’autrice? Da che cosa è finalmente libera adesso che? Noi non siamo riusciti a capirlo, poiché abbiamo il sospetto che ella voglia enfatizzare un banalissimo traguardo quotidiano come il trattamento di quiescenza. Se siamo eccessivamente piatti e banalizzatori, la preghiamo umilmente di farcene l’esegesi, perché se l’ermetismo non acchiude slanci comunicativi e rimane in un limbo indecrittabile, lo sforzo è mero esercizio retorico. Che cosa patisce nel primo verso? Una vedovanza? Chi le impediva prima l’esplorazione dei felini sulle tegole, ovvero le dissolvenze dei cumuli nembiformi oltre le finestre di casa? Parrebbe che non vi sia più compagno ad accenderne i sensi e ad attenderla in un talamo e di nuovo pare tornare l’idea dell’orfanezza da amore. E come mai il suo mattino non inizia mai? Insomma vorremmo capire perché l’immanenza di tutte queste libertà le fa sorgere immensa nostalgia per il passato allorché ne giaceva in cattività. Restiamo ad ogni buon conto, laddove qualcuno giudichi interessante e comunicativo questo paludato contrasto tra la libertà dell’oggi e il vincolo del passato, convinti che formalmente l’uso dell’anafora appesantisca enormemente il ritmo di tale afflato comunicativo. E a prescindere dalla docimologia tecnico-contenutistica, a noi che sentiamo riecheggiare in queste linee i temi di una vecchia canzone endrighiana, questo tema del rimpianto della libertà, questa logica dell’or vedo era pur buona ci dà tanto, ma tanto la brutta impressione di tematiche viete e sdrucite, banalizzate per l’occasione di una poesia spenta ed atonica, che non contiene significati profondi ma un infantile quanto politicamente corretto ripiegarsi su se stessi, rievocando classicismi che non si è davvero in grado né di eguagliare né tantomeno di raggiungere, con buona pace di Einaudi, il bravo editore che la pubblica non si sa bene perché e di tutti i critici che, siccome pubblica con grosso editore, hanno il coraggio di definirla, una delle migliori poetesse contemporanee. Se questo è il meglio che la contemporaneità ha da offrire, immaginiamo cosa possa essere il peggio.

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