Agabadora, akkabadora, morte, rito

Agabadora, akkabadora, morte, rito

Agabadora, akkabadora, morte, rito

Agabadora, akkabadora, morte, rito

Remo Wolf, original engraving, 10/10, credit Antiche Curiosità©

 

Mary Blindflowers©

Agabadora, akkabadora, morte, rito

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                                                             “Duos montes paris paris

                                                              Duas cannas treme  treme

                                                             Si lu pones in cabitza

                                                             Prus lestru tinde moris[1].

 

 

 

Fin dall’epoca nuragica esisteva in Sardegna l’uso di agabare ossia di finire i moribondi. Una donna, s’agabadora, o akkabadora s’assumeva l’onere di soffocare con un cuscino i malati che soffrivano tanto ma che non si decidevano a morire[2]. Essa nello svolgere questo ingrato compito pronunciava le parole di rito: andade in bonora compare meu, drommide in pasu, nos amus a bidere in s’ateru mundu[3].

Ancora oggi quando un paziente non mostra troppa fiducia nelle cure che gli vengono prestate esprime la sua diffidenza dicendo: “iscur’ a mie non m’ana essere agabende![4].

Non manca il riferimento a questa forma di eutanasia nelle opere di Carlo Varese[5] che ha costruito dei romanzi in bilico tra realtà e pura fantasia, relegando le akkabadoras ai margini della collettività, mentre invece nella realtà storica esse erano perfettamente integrate nella società per la quale il ruolo che svolgevano era considerato utile.

Nel 1830 Varese pubblicava Folchetto Malaspina in cui l’akkabbadora Pattumeia fa parte della terribile setta degli accabbaduri che, detestati da tutti, vivono isolati uccidendo vecchi e moribondi.

Ne La Preziosa di Sanluri, completamente ambientato nella Sardegna del 1400, gli accabbaduri sono spie e sicari che vivono di tradimenti ed omicidi.

Varese venne accusato di aver diffamato la patria e di aver travisato la realtà. Il 3 agosto 1832 sul primo numero de L’Indicatore Sardo apparve un polemico articolo di un’anonima signora che abitava a Torino contro lo scrittore. Si disse che la storia sarda non poteva essere offuscata dall’invenzione delle akkabbadoras considerate un parto della fertile fantasia del romanziere[6]

Secondo l’Angius, che su incarico dell’abate Goffredo Casalis doveva compilare per il Dizionario Statistico degli Stati Piemontesi, la parte riguardante la Sardegna, accabbadora viene dal verbo accabbàre che ha la sua radice in cabu o testa e significherebbe dare al o sul capo ossia “uccidere percuotendo la coppa, e figuratamene trarre a capo o condurre a fine qualche bisogna”. Tutto ciò poteva essere riferito all’usanza di “certe donnicciuole” che a Bosa, fino a  metà del secolo XVIII, troncavano l’agonia di un moribondo “dando loro o sul petto o sulla coppa” dei colpi mortali “con un corto mazzero, sa mazzuca[7].

Nel Dizionario etimologico sardo anche Wagner asserisce che akkabbare, dalla radice kabu/fine ha il significato di terminare o finire, dallo spagnolo acabar, concludere, condurre a capo, terminare, uccidere[8].

Charles Edward nel 1889 sottolinea come i sardi fino all’unità d’Italia avessero scarsa fiducia nei medici e ricorressero spesso a maghi e fattucchiere per guarire i malati e nel caso giudicassero impossibile la guarigione praticavano l’eutanasia fin dal III secolo a. C. Addirittura pagavano una classe di accabaduri, che provvedevano a sopprimere l’infelice moribondo:

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Era un’usanza tra i figli e le figlie dei sardi … nel passato, liberare i loro genitori dal peso della vita quando essi si ammalavano per l’età o altre cause. Alcuni dicono che essi uccidevano con clave, e poi lanciavano i corpi da un precipizio in onore di Saturno. Ma non c’è dubbio che quando essi cominciarono ad acquisire un minimo dei metodi offerti dal progresso, dopo un po’ preferirono affidare questo compito di uccidere a sostituti. E così una classe di accabaduri e, ahimé, di accabadore nacquero come uccisori professionisti o ‘colpitori alla testa’ … ed essi venivano assunti come noi assumiamo un’infermiera. Ancora a metà del secolo scorso risulta che questa abominevole usanza, in decadenza, fosse praticata in Sardegna. Per quanto riguarda le testimonianze degli antichi sappiamo che era diffusa nel III secolo a. C; si può immaginare  che la disposizione mentale della razza sarda sia profondamente impregnata di un naturale senso di colpa che deriva da queste azioni. E questa inconscia eredità di colpa, può in qualche modo spiegare la espressione sgradevole del viso, e il diffidente comportamento del normale contadino sardo dei nostri giorni, ciò è anche sufficiente commento psicologico ai tristi gemiti o ai canti funebri della loro regione, e alla funerea solennità di quello che essi sono orgogliosi di chiamare il loro ballo nazionale: il ballo tondo[9].

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Le parole di Edwards, oltre all’opinabile interpretazione psicologica che attribuisce al comportamento diffidente ed orgoglioso del contadino sardo una mestizia dovuta ad atavici sensi di colpa, colpiscono soprattutto perché asseriscono qualcosa in più rispetto alle fonti precedenti. Coloro che avevano il compito di sopprimere i moribondi non erano soltanto donne ma anche uomini ed entrambe le categorie facevano parte di una classe di assassini professionisti che venivano pagati per praticare l’eutanasia sui malati terminali. Come le attittadoras  erano le professioniste del pianto perché ricevevano un compenso per piangere il morto e deturparsi le guance durante il lamento funebre, così gli accabaduri o akkabadores erano uccisori prezzolati.

Anche l’avvocato londinese John Tyndall, giunto nell’isola nel 1843, che definisce la tecnica dell’accoppare i moribondi “tenera ed affettuosa”, conferma che gli uomini potevano dedicarsi a questa pratica:

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Sembra che ci sia stata in passato l’abitudine di sollevare i familiari dalle loro pene, allorché diventavano vecchi, malati o inabili, ricorrendo alla tenera e affettuosa pratica dell’accoppare. Non è chiaro se l’interpretazione sarda del quinto comandamento incoraggiasse o scoraggiasse questo metodo: sembra pertanto che i figli non rendessero onore ai genitori con quest’ultimo pio ufficio da soli, ma che a questo scopo ricorressero alle accabadoras; una razza e professione non limitata agli uomini poiché l’accabadora era egualmente rinomata per la delicatezza del tocco. Sebbene molti sardi dubitino che questi personaggi e consuetudini siano mai esistiti, devono comunque esserci stati dei motivi che giustificano questa credenza … Comunque io non ho mai incontrato nessuno che abbia assistito alla cerimonia, sebbene molti dicano di averne sentito parlare[10].

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Edwards e Tyndall che indicano a metà ‘700 la decadenza del rito dell’akkabbadura, sono gli unici che parlano di accoppatori di genere maschile.

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[1] Si tratta di un indovinello sardo: Due monti uguali uguali, due canne che tremano, se lo metti sotto la testa muori prima. Soluzione: il giogo.

[2] “… per abbreviare la fine dei moribondi, venivano incaricate specialmente delle donne; si è dato loro il nome di Accabadure, derivato dal verbo accabare/finire. Questo resto di barbaria è felicemente scomparso da un centinaio d’anni”, A. La Marmora, Voyage en Sardigne de 1819 a 1825, ou descrption statistique, phisique et politique de cette ile, libro III, Paris 1826, p. 258.

[3]Andate in buonora compare mio, dormite in pace, ci rivedremo nell’altro mondo”.

[4]Povero me, non mi staranno finendo”.

[5] Carlo Varese, laureato in medicina a Pavia, nacque a Tortona nel 1792 e spirò a Ravezzano, nei pressi di Firenze nel 1866. Fu deputato dal 1859 fino alla fine dei suoi giorni.

[6] M. G. Cabiddu, Akkabbadoras, riso sardonico e uccisione dei vecchi in Sardegna, in “Quaderni bolotanesi”, cit., p. 348.

[7] G. Casalis, Dizionario geografico, storico, statistico, commerciale degli Stati di S.M. il Re di Sardegna, Torino, 1833, p. 534.

[8] Vedi a tal proposito M. G. Cabiddu, Akkabadoras, riso sardonico e uccisione dei vecchi in Sardegna, in “Quaderni bolotanesi”, cit., p. 349.

[9] Ibidem, p. 352, 353.

[10] Ibidem, p. 352.

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