Castighi disciplinari, bagno penale

Castighi disciplinari, bagno penale

Castighi disciplinari, bagno penale

Castighi disciplinari, bagno penale

Antique Print, A Brisk Gale at Sea, 1852, credit Antiche Curiosità©

 

Mary Blindflowers©

Castighi disciplinari, bagno penale

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Il mio saggio d’esordio, pubblicato anni fa con un editore truffaldino che non mi ha mai corrisposto un centesimo di diritto d’autore, nonostante continui a vendere il testo a 15 euro, è un libro senza infamia e senza lode. Si tratta soltanto di appunti di tesi di specializzazione che sapevo sarebbero serviti al relatore per aggiungere informazioni ai suoi testi, come sempre accade, infatti poco tempo dopo, il relatore ha pubblicato, che combinazione, un saggio sullo stesso preciso argomento in cui è rinvenibile l’eco del mio scritto. I miei appunti, chiamiamoli così, nonostante rappresentino l’unico saggio non sperimentale che abbia mai scritto, (poi ho preferito la strada dello sperimentalismo) contengono comunque notazioni curiose sulla vita dei condannati al remo e sull’evoluzione delle istituzioni carcerarie. In particolare è interessante la parte riguardante i castighi disciplinari di cui vi propongo un breve stralcio:

 

Prima della loro entrata nel bagno penale i galeotti venivano marchiati ed esposti alla berlina o carcan. «Il marchio ch’era stato introdotto in esecuzione del codice penale del cessato Impero Francese e che veniva applicato a tutti i condannati ai lavori forzati, nonché in altri casi speciali tracciati dallo stesso codice, venne tolto all’epoca in cui cessava quella legge, cioè negli antichi Stati di terraferma col Regio Editto del 21 marzo 1814, e nel Genovesato all’epoca della cessazione di quello stesso Governo».

La berlina venne invece soppressa nel 1815, «quando la Liguria» fu «riunita al Governo Sardo». Essa consisteva «nell’esporre il condannato durante un certo tempo e in dati giorni, determinati dal Magistrato che aveva proferita la sentenza», sopra un palco che veniva eretto al centro di una pubblica piazza e sul quale venivano «scritti a grossi caratteri il nome, il cognome e la patria del condannato; la natura del delitto commesso; la qualità della sentenza».

L’esecutore di giustizia con un ferro rovente bruciava la spalla destra del condannato, marchiandola con le lettere TP se la condanna era a vita, con la sola lettera T se la condanna era a tempo, aggiungendo in entrambi i casi la F se il reo era stato condannato per falso[1].

Se la riforma dei codici penali aboliva il marchio e “questo modo di esposizione”, la berlina rimase come “pena accessoria”, che veniva però inflitta non più su un palco ma facendo attraversare al condannato «le vie più popolose della città» con «le catene ai piedi, con un cartello appeso al collo» sul quale si scriveva, «in caratteri grandi e leggibili, il suo nome, cognome e soprannome se ne ha, la pena e la natura del reato»[2].

I castighi disciplinari del bagno erano gli stessi in uso in altri luoghi che ospitavano forzati: legnate, puntali, doppia e tripla catena, traverse, cannali, segrete e sotterranei.

Anche qui, come nel carcere, «lo sfinimento ed il pericolo di vita poteva solamente risparmiare al paziente il resto delle legnate, e le frustate a sangue, e la corda sui cavalletti, per essere condotto all’ospedale …»[3].

Il bagno era dotato di un ospedale nel quale venivano portati sia i forzati che avevano riportato qualche ferita più o meno grave in seguito alle punizioni subite, sia coloro che venivano colti da malattia.

In caso di mancanze disciplinari, per i forzati erano previste delle pene la cui crudeltà variava, a seconda della gravità dell’infrazione commessa, dalla “semplice prigionia” alla morte.

La prigionia prevedeva «una piccola cameruccia a pian di terra, presso l’entrata interna del bagno, umida, semioscura» che “non di rado” poteva ospitare “fino a sette e più individui” contemporaneamente. L’eccessiva umidità, la mancanza di luce, lo scarso spazio e “la poca quantità d’aria” che penetrava all’interno di questa sorta di celle, rendevano tale pena perniciosa per la salute dei condannati che vi venivano rinchiusi a causa di “piccole trasgressioni recidive” per otto e più giorni.

L’arredo consisteva in «un tavolato troppo vicino al suolo ed un càntero» che veniva usato da tutti e le condizioni igieniche erano pessime.

Ancora più dura era la “prigionia cosidetta solitaria”. I prigionieri venivano rinchiusi all’interno di “tane” localizzate «sotto un oscuro voltone all’entrata del bagno dal quale ricevevano poca aria e quasi nessuna luce mercé una piccola inferriata che stava sull’alto della porta delle prigioni medesime».

L’umidità vi regnava sovrana assieme alla sporcizia.

Si trattava di piccoli “covi” di un metro di larghezza e tre di lunghezza. I rei all’interno di queste cellule, ove spesso erano costretti a vivere per più settimane, venivano legati con le catene “ad un banco in legno” che fungeva da giaciglio. C’era poi “un càntero” per “i bisogni corporali” che veniva svuotato “soltanto ogni ventiquattr’ore”[4].

Una punizione particolarmente umiliante era “il banco di rigore”.

Il condannato veniva legato «con doppia e grossa catena in una delle sale del bagno», gli veniva rasata la testa per umiliarlo e non veniva mandato al lavoro. «Questa pena era generalmente temuta, sia perché il banco di rigore si trovava nella prima sala del bagno», e perciò il reo era esposto allo sguardo di tutti gli altri galeotti, sia perché, non potendo lavorare, doveva rinunciare al piccolo guadagno che derivava dal lavoro[5].

La catena” poteva essere più o meno pesante, di sei o di nove maglie. Quando si componeva di ben diciotto maglie e pesava da “7 a 8 chilogrammi” era detta “catena di rigore”. Essa si stendeva “dal piede al fianco”, circondava “la vita” e, passando “dall’una e dall’altra parte”, ritornava “sull’anca dell’opposto lato”, «cingendo così il condannato di gravosi ferri». A questa punizione si accompagnava in genere la tonsura «per intero o a metà della testa»[6].

Una delle pene più crudeli era sicuramente “la bastonata”, pronunciata «dal Comando Generale della Regia Marina, dal Consiglio di Ammiragliato, dal Comandante dell’Arsenale e dal direttore del bagno». Coloro che avevano il compito di infliggere materialmente le pene erano dei «mozzi scelti fra i condannati per buona condotta e minor durata di pena». Fra i mozzi ce n’era uno in particolare chiamato “corregidore”, che aveva il compito preciso di infliggere le bastonate.

Il condannato sdraiato veniva legato a un banco, indi veniva attorniato da tutti gli altri forzati che, «fannosi espressamente riunire», per assistere all’edificante spettacolo dell’applicazione della pena. «Il corregidore», dunque, «dà di piglio al bastone ed infligge il numero di bastonate cui» il reo veniva condannato[7].

Il poveretto non solo non poteva muoversi perché legato saldamente con delle “corregge in cuoio”, ma non poteva neanche urlare liberamente di dolore perché «un fazzoletto stretto tra i denti doveva impedirne ogni gemito»[8].

Molti fra i condannati alla “bastonata” rimanevano paralizzati agli arti inferiori oltre a riportare immancabili lacerazioni della carne che poi si infettavano: «sono pochi quelli che non vengono allo spedale dopo aver subita la bastonata. Le contusioni che produce facilmente inducono nelle parti colpite delle strisce cancrenose».

«Ne vidi parecchi», testimonia G.B. Massone, «che ebbero a guardare il letto per lunghi mesi, affetti da profonde suppurazioni e da gravi paralisi delle estremità inferiori»[9].

Massone afferma che dall’agosto del 1841 al 15 maggio 1850, in nove anni, nei bagni ch’egli poté frequentare in qualità di medico della Real Marina, la pena venne inflitta 50 volte, 17 volte per “gravi insubordinazioni”, altrettante volte per “ferite portate alle guardie ed ai compagni”, 10 per “furto”, 2 per “sodomia”, 2 per “gioco”, una per “fabbricazione clandestina di pugnali” e sempre una per “tentata evasione”.

Gli individui cui venne applicata la pena della “bastonata” erano stati condannati al bagno per diversi reati: “furto”, “omicidio”, “diserzione”, “recidiva insubordinazione militare”, “grassazione”, “truffa”, “stupro violento”.

Il numero dei colpi inflitti variava a seconda della gravità dell’infrazione disciplinare commessa[10].

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Note:

[1] (40) Massone, La pena dei lavori forzati considerata, cit., p. 35.

[2]  (41) Codice Penale per gli Stati di S.M. il Re di Sardegna, cap. IV delle pene accessorie, artt. 39-40: «Chiunque sarà stato condannato alla pena dei lavori forzati a vita, prima di subire la pena sarà esposto alla berlina. Sarà pure esposto alla berlina il condannato ai lavori forzati a tempo, sempreché si tratti di condanna per crimini di grassazioni, estorsioni, furti, falsificazioni di monete, bolli, sigilli, scritture, di falsa testimonianza e di calunnia» (Massone, La pena dei lavori forzati considerata, cit., p. 46).

[3]  (42) Castromediano, Carceri e galere politiche, cit., p. 208.

[4] (43) Massone, La pena dei lavori forzati considerata, cit., p. 111.

[5] (44) Ibidem, p. 112.

[6]  (45) Ibidem, pp. 113-114.

[7]  (46) Ibidem, p. 114.

[8] (47) Ibidem, pp. 115-116.

[9]  (48) Ibidem, p. 153 in nota.

[10] (49) Ibidem, pp. 133-134.

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